Silenzio prima della tempesta
In un paesino dimenticato da Dio, dove le strade polverose si allungavano tra campi infiniti, l’aria vibrava per il caldo come una corda sul punto di spezzarsi. Cinque giorni senza pioggia avevano trasformato tutto in un deserto arido e screpolato. L’asfalto scottava come carbone ardente, e il silenzio era così denso da sembrare tagliabile col coltello. Ogni cosa irritava fino alla nausea: lo scricchiolio delle persiane, l’odore di olio bruciato dalla cucina dei vicini, il rumore di un cucchiaio caduto a terra. Persino una mosca che sbattere contro il vetro suonava come un campanello d’allarme, come se presagisse la tempesta di cui nessuno era ancora a conoscenza.
Isabella si svegliò nel cuore della notte con la sensazione che qualcuno fosse nella stanza. Non uno sguardo, ma una presenza pesante, quasi tangibile, come un’ombra rannicchiata nell’angolo. Rimase immobile, in ascolto del silenzio del suo piccolo appartamento. Afa. Non aveva aperto le finestre—in quel paesino la notte non portava frescura, ma solo cani che abbaiavano, chiacchiere di ubriachi e l’odore di sigarette economiche. L’aria era stagnante come in un granaio abbandonato. Il suo corpo bruciava dentro, come se non fosse il caldo a prosciugarla, ma qualcosa di invisibile che si era accumulato negli anni, come la polvere negli angoli.
In cucina, un rubinetto gocciolava. Isabella si sollevò, tendendo l’orecchio. *Drip*. Silenzio. Di nuovo *drip*. Si alzò, camminando a piedi nudi, evitando le assi che scricchiolavano, come se temesse di svegliare qualcuno. Eppure, sapeva di essere sola. Sul pavimento, una tazza rotta. Cocci affilati come un taglio fresco. Accanto, una pozza d’acqua—non gocce, ma un intero bicchiere sparso. Rotonda, calma, estranea. Isabella si bloccò. Viveva da sola. Da sempre. Ma in quel momento, la sua certezza si incrinò.
Spense la luce e tornò a letto. Il sonno non arrivava. Il lenzuolo si attaccava alla pelle, il cuscino sembrava una pietra rovente. Si rigirava, cercando una brezza inesistente. Dentro di lei si era insinuato qualcosa—non una voce, non una figura, ma un’ombra. Come se qualcuno stesse zitto accanto a lei, e quel silenzio fosse più forte di qualsiasi parola. Non la spaventava, ma la consumava, come una crepa che si allarga lentamente sul vetro.
Quella mattina, preparò la minestra. Lasciò raffreddare la pentola, prese uno straccio e pulì il piano cottura—non perché fosse sporco, ma per tenere le mani occupate. Si sedette vicino alla finestra, tirò fuori un vecchio quaderno. Consumato, a quadretti, con una macchia d’olio sulla copertina e gli angoli delle pagine piegati. Dentro, liste della spesa, frammenti di poesie giovanili, appunti, ricette, sogni. C’era anche un disegno—una teiera con il vapore, tracciato da una mano tremante dieci anni prima. Quel giorno, aprì una pagina bianca e scrisse: *”Nessuno viene. Nessuno chiede. Ma io sono ancora qui.”*
Poi cancellò. Lentamente, come se stesse cancellando un pezzo di sé stessa. L’inchiostro si sparse, la carta sotto le dita era ruvida, quasi le resistesse.
Rimase seduta a lungo. Ad ascoltare il ronzio del vecchio frigorifero, il battersi della porta d’ingresso. Qualcuno era arrivato. Non da lei. Di nuovo a vuoto. I passi sulle scale si facevano ogni anno più flebili. Il mondo se ne andava, senza voltarsi.
Isabella entrò in camera, si sedette sul bordo del letto, sistemò la coperta a suo marito, Marco. Non si svegliò. Respirava pesante, irregolare, ma era la normalità. Gli posò una mano sulla spalla. Non si tirò indietro. Dunque, sentiva ancora. Dunque, era ancora vivo. E lei era lì accanto. E finché c’era quel “insieme”, c’era anche un senso.
Si sdraiò accanto a lui. Non per dormire. Solo per starci più vicina. Stare lì e respirare all’unisono. Almeno per un po’. Almeno quella sera. Almeno quel fragile silenzio per due.
Dopo qualche giorno, si decise a chiamare sua figlia. Girò per la cucina, spostò le posate, pulì il lavandino già pulito, fissò il telefono come fosse una bomba. Compositò il numero con dita tremanti, temendo di sentire freddezza, fretta, indifferenza.
— Mamma? Tutto bene?
— Niente, volevo solo sentire la tua voce.
— Mamma, ho mille cose da fare. Ti richiamo, ok?
— Certo, tesoro. Certo.
Il cuore le si strinse, ma la voce rimase ferma. Dopo la chiamata, si sedette, si coprì il volto con le mani, poi si alzò e mise su il bollitore, come se potesse soffocare il vuoto.
Ma sua figlia la richiamò. Dopo tre ore. Senza preamboli.
— Mamma, come stai?
E Isabella scoppiò in lacrime. Non per il dolore. Perché qualcuno l’aveva chiesto. Proprio così. E all’improvviso capì quanto quelle parole le fossero mancate. Un semplice *”Come stai?”*
Una settimana dopo, in casa arrivò un gattino. Lo portò la nipote. Piccolo, tremante, con orecchie enormi e occhi pieni di stupore.
— Nonna, è per te. Perché non ti annoi. Lui ha paura, tu sei sola. Siete perfetti l’uno per l’altra.
Isabella lo prese con delicatezza, come fosse un vaso prezioso. E all’improvviso, nel petto, si diffuse un calore, come se un nodo stretto da anni si fosse sciolto.
Era un micio rosso, con zampe lunghe e una faccia buffa, come se il mondo lo meravigliasse sempre. La prima notte la passò sotto una sedia, ma già il mattino dopo dormiva sulla sua coperta, accoccolato ai suoi piedi. Lo chiamarono Peperino. Non importava che fosse un maschio. Era semplicemente Peperino. Perché era caldo, morbido e sempre lì. Fare le fusa così forte da riempire tutto il silenzio della casa, e in quel suono c’era qualcosa di vivo, di vero.
Ora, al mattino, Isabella parlava di nuovo. Prima con Peperino—gli chiedeva come aveva dormito, gli ricordava dove era la ciotola. Poi con Marco—gli leggeva le notizie, brontolava perché lasciava tutto in giro. Poi con sé stessa—non più a bassa voce, ma ad alta voce. Come per verificare che la sua voce ci fosse ancora. E infine con chiunque passasse. La vicina. Il postino. Persino l’ombra alla finestra.
Il telefono non lo riparò mai. E non serviva. Le parole vere non annegano nella fretta. Vivono nelle pause, negli sguardi, nei gesti. E in quel batuffolo caldo che viene da te al mattino, quando ne hai più bisogno.