**Gli Occhi di un’Amicizia Perduta**
Una brusca frenata dell’autobus quasi fece cadere una donna in un cappotto blu logoro—riuscì a malapena ad aggrapparsi al sostegno prima di finire in ginocchio accanto a un’altra passeggera. Per un attimo, arrossendo per la vergogna, alzò lo sguardo—e allora si bloccò.
«Valeria?» sussurrò, fissando quei lineamenti così familiari.
La donna a cui era quasi caduta addosso incrociò i suoi occhi per un istante… e poi distolse lo sguardo. Finse di non riconoscerla.
Ma la sua mano tremava, stringendo la maniglia di una vecchia borsa, e il viso era pallido come se tutto il sangue le fosse defluito. Le palpebre le tremavano.
Lidia Moretti (era questo il nome di quella col cappotto blu) la fissò incredula.
Ma quella era proprio lei! Valeria Rossi, con cui aveva lavorato spalla a spalla per quasi un decennio al mercato di Porta Palazzo, a Torino, negli anni difficili dopo la crisi.
Sì, era cambiata. I capelli neri, una volta folti, ora erano grigi e raccolti in una crocchia stretta. Il viso segnato, la luce negli occhi quasi spenta… Ma le fossette sulle guance e quella piccola cicatrice sopra il sopracciglio erano sempre le stesse.
«Valeria, non fare finta! Sono io, Lidia!» esclamò, «ricordi quando vendevamo insieme a Porta Palazzo? Nel ’98, quando…»
«Mi scusi, si sbaglia,» la interruppe Valeria con una freddezza improvvisa, senza nemmeno guardarla.
«Come posso sbagliarmi?! Eravamo come sorelle…» replicò Lidia a voce alta, incredula.
«Non la conosco. Lasciami in pace,» tagliò corto Valeria, la voce rotta.
Intorno, i passeggeri si zittirono. Una signora anziana con il carrello si voltò a guardarle con curiosità.
Lidia si bloccò. I suoi occhi scivolarono sull’uomo seduto accanto a Valeria—un tipo cupo, coi capelli unti, una giacca di pelle consumata. E poi notò, sotto uno strato di fondotinta, un livido attentamente coperto sulla guancia di Valeria.
Il cuore di Lidia si strinse.
«Oh, mi scusi davvero,» mormorò, «devo essermi confusa. L’età, sa com’è…»
Dopo qualche fermata, Valeria e il suo accompagnatore scesero. Lidia li osservò mentre lui, una volta in strada, cominciò a brontolarle qualcosa con tono aggressivo, e lei restò immobile, la testa china, come una bambina rimproverata.
A casa, Lidia rimase a lungo alla finestra, a ricordare.
Come avevano iniziato a vendere insieme, come si caricavano le borse piene di merce, come si aiutavano l’un l’altra coi prepotenti del mercato. Come Valeria, con un bastone in mano, aveva affrontato due delinquenti per salvarla—e si era beccata quella cicatrice.
Aprì un vecchio album.
Una foto dietro al bancone. Sul retro, una scritta: «Lidia e Valeria. 1998. Andrà tutto bene!»
«Com’è possibile, Valeria?» sussurrò, «eravamo così vicine… Cosa ti è successo?»
Una settimana dopo, la rivide.
Seduta in fondo all’autobus, accanto allo stesso uomo. Lidia lo osservò meglio—e il sangue le si gelò.
Era Vittorio Bianchi. Uno di quei delinquenti del mercato. Lui e i suoi amici l’avevano minacciata una volta con un coltello. Chiedevano il portafoglio. E Valeria, con quel bastone, l’aveva salvata.
E ora era lì. Con quella stessa Valeria. Sottomessa, spenta…
«Non ora…» sussurrò Lidia, «negherà di nuovo. Devo provare in un altro modo.»
La volta successiva, salì sull’autobus subito dopo di loro e, mentre Vittorio pagava il biglietto, infilò a Valeria un biglietto piegato in quattro nella mano.
Lei sussultò. La guardò—e due volte, quasi impercettibilmente, strinse le labbra.
Era il loro vecchio segnale. Codice pericolo.
Lidia annuì e proseguì.
Nel cuore, un solo pensiero: è lei. È la mia Valeria. E la salverò, come una volta salvò me.
Passò quasi un anno. Il telefono restò muto. Ma Lidia sapeva: avrebbe chiamato. E non si sbagliò.
«Lidia, stella mia!» sentì dalla cornetta. «Domani alle tre. Dove sai.»
Lidia arrivò al bar mezz’ora prima. Non aveva chiuso occhio tutta la notte. Ordinò un caffè, le mani tremanti.
E poi… entrò lei. Valeria.
Non quella rassegnata, chiusa. No. La vera.
Jeans. Camicia bianca. Capelli corti. Occhi che ridevano. Fossette.
«VALERIA!» balzò in piedi Lidia.
«LIDIA!» urlò in risposta Valeria.
Si abbracciarono. A lungo. In silenzio.
«Ascolta, sei incredibile!» esclamò Lidia quando si sedettero. «Un anno fa eri…»
«Un anno fa non c’ero. Ero morta. Ma tu…» Valeria le prese la mano, «mi hai tirata fuori. Quel biglietto.»
«Io? Ma ho solo…»
«Esatto. Niente discorsi, niente nomi. Senza pericolo. Hai capito. Sei rimasta vicina. E io… mi sono ricordata chi ero. E cosa ero diventata. Ho guardato allo specchio… e ho detto basta.»
Scoprì che suo marito, Marco, non era solo un tiranno. Le aveva distrutto tutto. Dopo aver perso il bambino, era sprofondata nei sensi di colpa. Si era condannata. Si era arresa.
«Pensavo che, se avevo perso mio figlio, lo meritavo. Che dovevo soffrire. E ho sofferto. Anni… Poi il tuo biglietto. Un foglietto minuscolo mi ha ridato la vita. Mi ha ridato a me stessa.»
Divorziò. Partì. Ricominciò da zero.
«A Milano. Lì ho ricominciato tutto. E nessuno mi cerca. E tu…»
«E io, Valeria, ci sono. Dimmi solo dove—e arrivo. Come negli anni ’90: borsa in spalla e via!»
Risero entrambe.
Ora Valeria vive a Milano. Lavora, sorride, respira libera.
E Lidia va spesso a trovarla. Passeggiano lungo i navigli, chiacchierano come una volta. Ridono fino alle lacrime.
E ognuna di loro sa:
ci sono incontri che ti restituiscono a te stessa. E forse, un biglietto stretto in mano su un autobus affollato—è proprio il dono più prezioso del destino.
**Lezione:** a volte basta un gesto piccolo per riaccendere una vita spenta. L’amicizia vera non muore mai—aspetta solo il momento giusto per tornare.