Dove nessuno si perde mai

Erano già passati nove mesi dall’ultima volta che avevano avuto notizie di Luca. All’inizio, Maria Grazia contava i giorni, segnandoli sul vecchio calendario in cucina. Poi iniziò a contarli a settimane. Infine smise del tutto, perché ogni nuovo giorno senza una lettera le feriva il cuore come il vento freddo di dicembre. Continuava comunque a controllare la cassetta della posta – al mattino, appena l’alba sfiorava le finestre, e la sera, quando le ombre si addensavano nel piccolo appartamento alla periferia di un paesino in Umbria. La postina, Anna, ormai non alzava più lo sguardo passandole davanti, come se il suo silenzio potesse addolcire il vuoto. Ma la cassetta rimaneva muta. Ancora e ancora.

Luca era partito per il Canada quattro anni prima. Per lavoro. Aveva promesso che sarebbe stato via poco. Che avrebbe guadagnato, sistemato tutto, aiutato. Che sarebbe tornato. Se n’era andato con una valigia leggera, un sorriso e gli occhi pieni di sogni. I primi mesi scriveva spesso – messaggi brevi, telefonate la sera. Poi sempre più di rado. E infine, il silenzio. Come se qualcuno, oltre l’oceano, avesse cancellato il suo passato, cancellando dalla memoria la casa, la strada, la madre.

Maria Grazia si aggrappava alle scuse come a un salvagente. È occupato. Sta imparando la lingua. Si sta costruendo una nuova vita. Lo ripeteva, in piedi ai fornelli, per non gridare dal dolore, per soffocare la paura che suo figlio fosse sparito per sempre. Le tornavano in mente i suoi passi infantili nel corridoio, le sue risate quando, tutto sporco di terra, entrava correndo da fuori gridando: “Mamma, guarda cosa ho trovato!” Ora invece la circondava il silenzio – pesante come la neve che ricopriva il loro paesino.

Le scuse si esaurirono. Rimase solo l’abisso. Freddo, impenetrabile, cresceva tra loro ogni giorno, come un muro di ghiaccio che separava il passato dal presente.

Nel loro paesino, madri così non erano poche. Donne i cui figli erano partiti, lasciando dietro di sé cassette vuote e parole non dette. Si riconoscevano negli sguardi – vivi, ma annebbiati dalla tristezza. La vicina, Carla, sussurrava: “Almeno è vivo, Maria. Prendi quello che ti dà.” Maria Grazia annuiva, ma dentro di lei si allargava un senso di colpa. Non le bastava sapere che era vivo. Voleva sentire la sua voce, il suo “Mamma, come stai?” – non per i soldi o i regali, ma perché il suo cuore potesse battere di nuovo regolarmente.

Viveva una vita semplice. L’orto dietro casa, il gatto di nome Nerone, la vecchia televisione che trasmetteva melodrammi senza fine. Il venerdì pulizie, il sabato al mercato, dove i venditori la salutavano come un’amica di vecchia data e la fruttivendola le chiedeva sempre: “Di nuovo senza borsa, Maria Grazia?” Lavorava a maglia. Prima faceva i guanti per Luca, ricordando le sue mani grandi. Poi li faceva così, per caso, riponendoli nel cassetto come se qualcuno potesse ancora venire a prenderne il calore. Cuciva cuscini per il gattile. Solo perché le mani non tremassero dal vuoto. Solo perché il giorno non diventasse un baratro senza fondo.

In una di quelle umide giornate di novembre, suonarono alla porta. Maria Grazia pensò fosse la vicina – a chiedere farina o fiammiferi. O forse un corriere si era sbagliato di indirizzo. Aprì – e si bloccò, come se il mondo si fosse fermato. Sulla soglia c’era un ragazzino di undici anni, con una giacca logora e uno zaino piccolo. Gli occhi – grigi, attenti, con una scintilla, come se già sapesse che la vita poteva riservare qualunque cosa.

“Lei è Maria Grazia?” chiese piano, la voce tremante, forse per il freddo, forse per l’emozione.

“Sì…” sussurrò lei, sentendo il cuore stringersi per un presentimento strano.

“Io sono Matteo. La mamma ha detto che posso stare da lei. Ha detto che dalla nonna è sempre sicuro.”

Il mondo vacillò, come un vecchio ponte al vento. Maria Grazia non capiva subito cosa stesse succedendo. Notò solo le guance arrossate dal freddo del bambino, il modo in cui si torceva il bordo della manica. Poi i suoi occhi. Esattamente quelli di Luca da piccolo. Lo stesso sguardo diretto, la stessa quieta determinazione.

“Sei affamato?” chiese, aggrappandosi alle parole per non perdere l’equilibrio.

“Posso avere un tè? Con il miele, se ce l’ha,” rispose, accennando un sorriso.

Entrò, posò lo zaino vicino alla porta e si sedette a tavola. Tranquillo, come se ci fosse già stato mille volte. Si tolse le scarpe, piegò con cura la sciarpa, lisciò i guanti. Maria Grazia notò quanto fosse consumato il suo maglione, il nodo del laccio ormai tutto sfilacciato.

Il telefono vibrò. Luca. Per la prima volta dopo un anno.

“Mamma, scusa come è andata. Qui è tutto… complicato. Ti richiamo, ok?”

Riattaccò senza aspettare una risposta. Lei rimase in piedi, guardando Matteo, che già accarezzava Nerone, delicatamente, come se avesse paura di spaventarlo.

“Posso dargli da mangiare?” chiese il bambino, guardando il gatto. “So come fare. A casa avevamo un gatto.”

“Si chiama Nerone,” rispose lei, ancora incredula che non fosse un sogno.

“Allora posso leggergli qualcosa? Leggo sempre prima di dormire. La mamma diceva che così i sogni vengono belli.”

All’inizio, era come un’ombra. Mangiava con cura, sistemava tutto da solo, dormiva aggrappato alla coperta, con la lucina accesa, come se il buio potesse trascinarlo via. Scriveva su un quaderno, disegnava con le matite, chiedeva il permesso per tutto – prendere il pane, accendere la luce, uscire. Come se temesse di essere di troppo. Poi iniziò a sorridere. A chiedere un’altra porzione di polenta. A portare sassi, pigne e storie sui cani del vicinato dalle passeggiate. Una volta tornò con un passero ferito all’ala, avvolto nella sua sciarpa, e lo nutrì con le briciole.

Maria Grazia aveva paura di abituarsi. Ogni notte si ripeteva: “Se ne andrà presto”. Ma ogni mattina si sorprendeva ad aspettare i suoi passi, le sue domande, le sue risate. Poi si arrese. Lui divenne il suo mattino, la sua sera, il suo senso, come una luce calda alla finestra.

Matteo rimase da lei quattro mesi. Luca chiamò tre volte. Breve, secco. Del lavoro, dei problemi, del fatto che “è tutto complicato”. Nessuna parola sul figlio. Nessuna parola su di lei. Solo: “Mamma, non chiedermi niente per ora.”

Lei non chiese. Anche se le domande le bruciavano l’anima. Ma tacque. Per Matteo. Per la casa che si era rianimata con la sua voce.

Quando se ne andò, l’inverno aveva già ghiacciato il paesino. Alla stazione, la strinse così forte che sentì il suo cuore battere. Senza lacrime, senza parole, ma con una forza tale che sembrava quasi un dolore lasciarla. Non pianse. Gli accarezzò solo i capelli, come se non si stesse congedando da lui, ma da una parte diPoi tornò a casa, accese la luce e sorrise pensando che forse, proprio lì, nessuno si perdeva davvero.

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