In cucina si sentiva il profumo delle polpette fritte. Giulia le girava abilmente in padella, cercando quella croccante doratura perfetta. Nella stanza accanto, il piccolo Matteo russava piano nella sua culla. La giornata era stata stancante — notti insonni, bucato, pulizie, cucinare, e di nuovo pannolini. Tutto da sola.
Poi, all’improvviso, un pianto. Quello straziante che fa gelare il cuore di ogni mamma.
“Luca, vai da Matteo!” gridò Giulia, senza girarsi, sperando in una reazione del marito.
Silenzio.
Lasciò il mestolo, abbandonò la padella sui fornelli e corse in camera. Prese il bambino in braccio, lo cullò, lo calmò. Tornando in cucina, sentì l’odore di bruciato. Le polpette erano diventate nere.
“Ecco, finito, le polpette vanno buttate. Grazie, Luca,” disse con amarezza.
Matteo ricominciò a frignare. E Luca? Era incollato alla TV, dove passava la sua partita preferita.
“Luca! Non ce la faccio più! Occupati di tuo figlio!” urlò Giulia, alzando la voce. E dalla stanza, esplose un urlo di gioia maschile:
“GOOOOOOL!!!”
A quel grido, Matteo scoppiò a piangere ancora più forte.
Giulia corse di nuovo da lui, stringendolo al petto. Non sentiva più la stanchezza — dentro di sé ribolliva tutto. Tornata in cucina, si sedette al tavolo, chiudendo gli occhi. Poi si avvicinò a Luca.
“Luca, per favore. Porta Matteo a fare una passeggiata. Devo finire in cucina, e poi… ho bisogno di respirare.”
“Ma non vedi che sono occupato?” rispose lui, senza staccare gli occhi dallo schermo.
“Basta. Ne ho avuto abbastanza,” disse freddamente Giulia. “Goditi la tua libertà, Lucone. Me ne vado. Da mia madre.”
Fece le valigie, preparò il bambino. Un vicino le aiutò a sistemare la carrozzina mentre usciva dal palazzo. Un’ora dopo, Giulia era sulla soglia di casa sua.
“Mamma, noi e Matteo staremo qui un po’. Solo un po’,” la voce tremava, ma negli occhi c’era decisione.
“Rimanete quanto volete,” disse la madre. “Vi siete litigati?”
“No, solo… sono stanca. Tu sei in vacanza, aiutami un po’, va bene?”
La sera, squillò il telefono. Sullo schermo: “Luca”.
“Giulia, dove sei andata?” chiese lui, confuso.
“Te l’ho detto prima di andarmene. O il calcio era più importante?”
“Non ho sentito nulla…” borbottò.
“Ed ecco il tuo problema: non ascolti. Me. Nostro figlio. Solo te stesso e un pallone.”
“Ecco, ricominciamo,” brontolò, e riattaccò.
Un’ora dopo, un’altra chiamata:
“E la cena? Perché non l’hai preparata?”
“E tu perché non mi hai mai aiutato? Non ho avuto tempo. Sai perché? Perché tutto ricade su di me.”
“E quando torni?”
“Non lo so. Forse fra un mese. Forse due.”
“E allora perché ti sei sposata, se non sai staccarti da tua madre?!”
“Perché? Per cucinarti, pulirti dietro, lavare i tuoi panni e sentirti parlare di calcio?! Sognavo questa vita da bambina! Proprio una favola!”
“E vuoi che faccia io le cose da donna? Non ci contare! Preferisco divorziare che diventare un mammo!”
“E allora fallo. Divorziamo.” Riattaccò.
La madre, seduta nell’altra stanza, si avvicinò:
“Allora vi siete litigati, eh?”
“Mamma… non sono una domestica. Ho notti insonni. Non chiedo tanto — solo un po’ d’aiuto. E lui urla: ‘Divorziamo!’. Che vada al diavolo.”
“Giulia, non essere impulsiva. Sì, ha torto. Ma un padre serve a tuo figlio. Forse non è tutto perso.”
Passò una settimana. Squillò il telefono.
“Giulia, mi sei mancata… Torna a casa,” la voce di Luca era supplichevole.
“Sto appena iniziando a riprendermi. Grazie a mamma.”
“Quindi non torni?” Il tono cambiò bruscamente.
“Tornerò. Se mi aiuterai. Non ti chiedo di svegliarti la notte con Matteo. Ma nei weekend, per favore. Sei suo padre.”
“Non ci penso neanche! Sono un uomo, non una donna! I lavori da donna li fate voi!”
Passò un mese. Matteo ormai dormiva tutta la notte. Giulia finalmente respirò. Un sabato mattina, disse alla madre:
“Mamma, vado da Luca. Voglio provare a fare pace. Poi torneremo insieme a prendere Matteo.”
“Era ora, figlia mia. Prova ancora.”
Giulia arrivò a casa. La chiave era ancora sua. Aprì la porta. Si tolse le scarpe. E vide, nell’ingresso, un paio di tacchi a spillo.
Il cuore le si ghiacciò.
Entrò in camera. Lui era lì, sul letto. E non era solo.
Con uno sguardo vuoto, si girò e impallidì.
“Giulia! Aspetta! Non è niente di serio! Io… ti amo solo te!” le corse dietro, disperato.
Lei non si voltò nemmeno. Quelle parole non significavano più nulla.
Avrebbe potuto perdonare molto — l’indifferenza, la pigrizia, perfino la sua ossessione per il calcio. Ma non il tradimento. Non con un figlio ancora vivo. Non nella casa dove sperava di tornare.
A volte, tutto ciò che una donna vuole è essere ascoltata. Non per le urla. Ma per il silenzio in cui il bambino dorme tranquillo. Per una casa dove non tira tutto il peso da sola. Per un uomo che non ha paura di tenere in braccio sia il figlio che sua moglie.
Ma se un uomo invece tiene in mano il telecomando, e non la responsabilità — allora non lamentarti se un giorno lei se ne andrà. E non tornerà.
Anche se le polpette non bruciano più.