Aveva vissuto nella sua città una donna, di nome Lucrezia Moretti. Credeva di condurre un’esistenza dignitosa. Non aveva mai formato una famiglia, né aveva avuto figli, ma possedeva un appartamento sempre ordinato e pulito, e un lavoro rispettabile: era contabile in una fabbrica di mobili.
Aveva trascorso i suoi cinquant’anni in silenzio e tranquillità, soddisfatta della sua vita, soprattutto se confrontata con quella dei suoi vicini. Le piaceva pensare che, a differenza loro, lei avesse fatto le cose per bene. Era una persona perbene, dopo tutto, che non faceva del male a nessuno.
I suoi vicini, invece, erano tutto fuorché perbenisti. Sullo stesso pianerottolo abitava, ad esempio, una donna sulla sessantina. Una vergogna! Già anziana, quasi in pensione, eppure si era tinta i capelli di viola! E poi, quei vestiti aderenti, quei jeans stretti… Tutti ne ridevano. Una pazza, ecco cosa era.
«Che indecenza!» pensava Lucrezia, osservando quell’anziana eccentrica, e si rassicurava guardando il suo riflesso nello specchio: dignitoso, appropriato alla sua età.
E della terza vicina era persino imbarazzante parlare. Ventun anni appena, e già aveva un figlio di cinque. Chissà, probabilmente era rimasta incinta ancora al liceo. E i genitori? Dov’erano finiti? A quanto pare, non ce n’erano: la ragazza viveva da sola con la bambina. E, per giunta, era diventata amica della vecchia dai capelli viola. Mentre lei era via a lavorare, l’anziana badava alla piccola.
Lucrezia non ne era sorpresa. «Gente così si cerca» pensava. «Con me, invece, evitano ogni contatto. Sanno di aver di fronte una persona perbene, e ne sono intimoriti. Un saluto in ascensore, e basta».
L’ultimo vicino era un uomo sulla trentina. La prima volta che lo aveva visto, era rimasta scioccata: braccia e collo completamente ricoperti di tatuaggi! Ma come faceva una persona normale a presentarsi così in pubblico? Assurdo! Da giovane, Lucrezia aveva sempre disprezzato certi tipi. Chiaramente, non avevano altro modo per distinguersi, se non rovinarsi la pelle. Volevano attirare l’attenzione, perché di intelligenza ne avevano ben poca. Meglio leggere un libro, no?
Questi erano i pensieri che l’assalivano ogni giorno, incrociando i suoi vicini. Tornata a casa, si rassicurava pensando che lei, almeno, viveva come si deve. A volte ne parlava al telefono con la sua unica amica. Non avevano molto altro di cui discutere, quindi «il tizio tatuato», «la giovane madre» e «la vecchia pazza» erano argomenti ricorrenti.
Una sera, Lucrezia tornava dal lavoro con il morale a terra. In ufficio era stata scoperta una discrepanza nei conti. La prima volta in anni. E di chi era la colpa? Ovviamente, della contabile. Aveva mal di testa da tutta la giornata, ma all’improvviso le orecchie le ronzavano e le gambe le si erano fatte pesanti come piombo.
Riuscì a malapena a raggiungere il portone, crollando sulla panchina. Sentì allora una mano posarsi delicatamente sul suo braccio. Alzando lo sguardo con fatica, riconobbe la vecchia dai capelli viola.
«Che succede? Non si sente bene?» le chiese con premura.
«La testa… mi duole» sussurrò Lucrezia.
«Venga, la porto da Luca. È a casa oggi. È pallida, non ha un bell’aspetto.»
«Luca? Chi è?»
«Abita al suo stesso piano. È cardiologo. Non lo sapeva?»
Giunte al piano, la vicina bussò alla porta di Luca. Con sorpresa, Lucrezia si ritrovò davanti l’uomo dai tatuaggi che, secondo lei, non poteva essere che un delinquente.
Luca le misurò la pressione, la fece sdraiare sul divano e le diede una pastiglia. Ben presto, il dolore e il ronzio svanirono.
«Faccia un controllo, signora. Anche le donne giovani come lei devono stare attente» le sorrise il medico, quando si riprese.
«Grazie» mormorò Lucrezia, provando un’improvvisa vergogna. Quante volte l’aveva giudicato per il suo aspetto! «Pensa solo all’estetica, ma dentro è vuoto» aveva detto. Eppure, era un dottore, salvava vite ogni giorno.
«Di nulla. Se ha bisogno, sa dove trovarmi.»
Tornata a casa, si sdraiò sul divano. Si era sbagliata su di lui. E anche sulla vecchia stravagante, che si era dimostrata gentile.
Qualcuno bussò alla porta. Sulla soglia c’era la donna dai capelli viola, con la figlia della giovane madre che, secondo Lucrezia, aveva avuto un figlio troppo presto.
«Volevo assicurarmi che stesse bene. Scusi se ho portato Viola, ma Elena è al lavoro… E poi, volevo conoscerla da tempo. Ma non osavo. Oggi è stato il caso! Noi ci frequentiamo con gli altri vicini, ma lei è sempre un po’ in disparte.»
«Entri, le faccio un tè» rispose Lucrezia, senza pensarci. «Grazie per l’aiuto, prima…»
«Ma figuriamoci. Capisco quando una persona sta male. Ho passato la mia giovinezza a curare mia madre. A 14 anni si ammalò, e se ne andò solo quando ne avevo più di trenta. Non ho studiato, non ho avuto storie d’amore, solo quella stanza… A malapena sono riuscita ad avere una figlia. Ma lasciamo stare. Adesso, nella vecchiaia, mi diverto» disse la vicina, indicando con un sorriso timido i suoi capelli colorati. «Grazie a Elena, che mi ha aiutata a tingerli. E mi compra magliette alla moda. Per poco, almeno, mi sento giovane. Ma la povera Elena ha avuto peggio.»
«Elena? Chi è?» chiese Lucrezia.
«Quella della porta accanto alla mia. Viola è sua sorella. I genitori sono morti in un incidente. Lei l’ha adottata, la sta crescendo. Ha lasciato l’università, lavora giorno e notte, poverina. Luca la aiuta, a volte, con qualche soldo. Luca, quello che l’ha soccorsa oggi…»
Quando la vicina se ne andò, Lucrezia restò seduta in cucina, lo sguardo perso nel vuoto. Avrebbe dovuto offrire il suo aiuto a Elena, poteva occuparsi di Viola ogni tanto. E poi, da tempo voleva tingersi i capelli di rosso. Aveva sempre pensato che, alla sua età, fosse inappropriato. Domani ne avrebbe parlato con la vicina! E non doveva dimenticarsi di invitare Luca per una torta, per ringraziarlo…