Oggi scrivo queste righe nel mio diario, con un sospiro pesante. Io, Giulia Lombardi, sapevo bene che non sarei mai diventata una suocera cattiva. Sono sempre stata una donna buona e sensibile, e ho cresciuto mio figlio Marco sapendo che un giorno avrebbe avuto una sua famiglia. E Marco, dopotutto, non mi doveva nulla.
Quando Marco portò a casa la sua fidanzata, una ragazza dolce di nome Beatrice, la accolsi con tutto il calore possibile. Anche lei sembrava volermi conquistare: lodava la mia cucina, ammirava la casa, mi faceva complimenti. Ero sicura che non ci sarebbero stati problemi tra noi.
Marco e Beatrice decisero di andare a vivere insieme. Mio figlio accennò all’idea di restare con me, ma a me non piacque affatto.
“Figlio mio, certo che non vi caccio via. Ma non è una buona idea. I giovani e i genitori dovrebbero vivere separati. Ognuno ha i suoi ritmi, le sue abitudini. E poi, due donne in cucina… non finisce mai bene.”
Marco mi ascoltò, ma affittare un appartamento da soli era troppo costoso per lui. Allora proposi di aiutarli temporaneamente.
“Posso pagare un terzo dell’affitto finché non vi sistemate.”
Lui accettò felice. E io ero disposta a farlo, per garantire armonia in famiglia.
Ricordo ancora quei primi anni di matrimonio con mio marito, quando vivevamo con i suoceri. Un incubo. Eppure mia suocera non era una cattiva persona, ma ci furono incomprensioni, litigi, piatti che non mi piacevano e che mangiavo solo per educazione. Non volevo rivivere quella situazione.
Marco e Beatrice affittarono un bilocale vicino a casa mia. Ero contenta: non insieme, ma nemmeno troppo lontani.
Beatrice lavorava all’asilo e guadagnava poco. Marco era impiegato in fabbrica e non cercava di migliorarsi.
Appena si trasferirono, mi offrii di aiutarli con le pulizie.
“Grazie mille, signora Giulia! Questa casa è un disastro, non so da dove cominciare,” disse Beatrice.
Così presi strofinacci e detergenti e mi misi al lavoro. Sospiravo guardandola mentre puliva: si vedeva che non era abituata e che la cosa la stressava. Alla fine, feci quasi tutto io. Lei si profuse in ringraziamenti, dicendo che avrebbe voluto imparare da me, ma io ero troppo stanca per ascoltare.
Il giorno dopo, Marco mi chiamò: “Mamma, possiamo venire da te questo weekend?”
“Certo, figliolo, sarò felice,” risposi.
Naturalmente, dovetti cucinare. Ma mi piaceva l’idea di stare insieme e sapere come andava la loro convivenza.
Peccato che, quando arrivarono, arrivarono a mani vuote. Non che mi aspettassi chissà cosa, ma almeno dei biscotti per il caffè.
Non sembravano nemmeno rendersene conto. Mi dissi che probabilmente erano distratti dai nuovi impegni.
“Mamma, possiamo portarci gli avanzi? Così non dobbiamo cucinare,” chiese Marco dopo cena.
Sospirai. A me sarebbe piaciuto non cucinare per qualche giorno, ma per mio figlio avrei fatto di tutto.
“Certo, prendete pure.”
Mi dava fastidio, ma cercavo di non pensarci troppo. Erano giovani, volevano vivere spensierati. E io? Avrei continuato a cucinare.
Lavoravo da casa, senza troppi obblighi in ufficio, e questo mi rendeva le cose più facili.
Ma la chiamata successiva di Marco mi colse impreparata.
“Mamma, posso passare a pranzo da te? Sto risparmiando, non voglio andare in mensa.”
Fui sorpresa. Non avevo programmato nulla, ma come potevo dirgli di no?
“Certo, vieni,” dissi, mentre mi affrettavo in cucina.
Pensai fosse un’eccezione, ma Marco cominciò a venire tutti i giorni. Non mi piaceva: la spesa aumentava e io perdevo tempo prezioso.
Ma tacevo. Come potevo negare un pasto a mio figlio? Una volta osai chiedergli: “Perché non ti prepari il pranzo a casa?”
“Beatrice non cucina molto. A proposito, possiamo venire a cena questo weekend? La tua cucina è fantastica!”
“Mi dispiace, ho un impegno con un’amica,” mentii, sentendomi in colpa.
Era ora di reagire, ma non trovavo il coraggio di dirglielo chiaramente. Non volevo sembrare avara.
Intanto, il portafoglio ne risentiva. E io pagavo ancora parte del loro affitto.
Per tre settimane andò avanti così: Marco a pranzo, poi anche Beatrice. Mi ero quasi abituata a fare la cuoca.
Ma poi superarono ogni limite.
Marco mi chiamò: “Mamma, tra poco è il compleanno di Beatrice. Ti invitiamo!”
“Oh, grazie. Ma non vorrei intralciare, avrete gli amici…”
“No, vogliamo averti con noi! Sei importante per noi.”
Mi sciolsi. Quelle parole potevano farmi perdonare molto. Ma non tutto.
“Ascolta,” continuò, “potresti venire prima? Aiutare Beatrice con le pulizie e la cucina.”
Mi riportò bruscamente alla realtà.
“Non è capace da sola?” chiesi asciutta.
“Beh, non cucina come te. Potresti preparare tutto a casa tua e portarlo. E poi aiutare a sistemare. Io sarò al lavoro.”
“E la spesa?” domandai, ancora sconcertata.
“Comprerai tu quello che serve. Non sappiamo cosa preparerai, ma a noi piace tutto. Ah, puoi anche apparecchiare? Beatrice andrà dal parrucchiere.”
Ero furiosa. Non mi volevano come ospite, ma come domestica gratuita. Soldi, cibo, pulizie: si erano organizzati bene.
“No, Marco, non verrò.”
“Perché?”
“Sarei venuta come invitata. Ma come sguattera, no.”
“Ma dai, è così difficile?”
“Difficile? Mezza giornata ai fornelli è difficile? Se è così, che Beatrice lo faccia lei! È il suo compleanno! E poi, il cibo costa, e parecchio. E voi non avete intenzione di rimborsarmi, vero?”
“Mamma, siamo a corto di soldi…”
“Se Beatrice ha i soldi per il parrucchiere, li troverete anche per il cibo. E smettila di venire a pranzo qui. Non sono una mensa!”
Avrei voluto aggiungere che pagassero l’affitto da soli, ma ebbi paura che si trasferissero da me.
Né Marco né Beatrice si scusarono. Non so come abbiano risolto per il compleanno.
Ma ho capito una cosa: una buona madre non è quella che nutre sempre il figlio, ma quella che sa staccarlo a tempo. Se no, si sposa ma rimane attaccato alla gonna della mamma. È ora che diventino indipendenti.