Lo Zio Michele era buffo. Sgraziato come un orsacchiotto. Piccolo di statura, paffutello, riccioluto. Occhi minuscoli, azzurro-trasparenti come caramelle di menta. Gli occhiali. E un’espressione infantile, gioiosa, ingenua.
Matteo aveva paura degli uomini. Soffriva al suono delle voci maschili, delle risate. Se qualcuno gli tendeva la mano, come si fa con un adulto, a soli sei anni si nascondeva subito dietro sua madre.
“Sofia! Ma che difensore fifone che hai!” ridevano i grandi.
Matteo non era fifone. Aveva protetto la vicina Giulia quando tre ragazzi più grandi le avevano strappato la palla per strada. Si era messo davanti a lei, deciso:
“Non toccatela! È una bambina. Se volete litigare, fate con me!”
E i ragazzi se n’erano andati.
“Guarda un po’, il coraggio del piccoletto!” avevano borbottato.
Giulia gli aveva preso la mano dopo: “Diventiamo amici!”, aveva detto.
E quando il gattino era salito sull’albero, Matteo ci era andato su da solo. Per fortuna la mamma l’aveva visto dalla finestra ed era corsa fuori, chiamando i vicini. Avevano salvato sia lui che il micio. Lo avevano portato a casa e l’avevano chiamato Tito.
All’asilo, Matteo era il più coraggioso, il più sveglio. Lo prendevano come esempio. Ma degli uomini aveva paura lo stesso.
Era cominciato a due anni. Quando suo padre urlava e alzava le mani su sua madre. Così grande e bello. Capelli neri, occhi neri, forte. Camminava per strada e la gente si voltava a guardarlo. Simone era perfetto. Di aspetto, non di anima. Matteo non ricordava nemmeno una volta che il padre lo avesse preso in braccio, abbracciato, consolato.
“Smettila di piagnucolare! Non sei una femminuccia. I maschi non piangono! Non fare il debole. Dormirai al buio, niente storie della buonanotte. E togli quel peluche dal letto, non sei una ragazzina, mica ti serve un pupazzo! Hai rotto la barchetta? Non avrai più giochi, sbadato. Vai via. Vai a giocare. Non disturbare. Zitto!” – queste erano le parole che Matteo sentiva dalla persona che amava di più.
Molto dopo avrebbe scoperto di essere un figlio non voluto. Suo padre non voleva sposare sua madre, ma i genitori lo avevano obbligato.
“Ti ama, Matteuccio. Forse col tempo capirà. È fatto così, ecco.” – gli diceva sua madre accarezzandogli i capelli.
Ma il tempo passava, e niente cambiava.
“Avresti dovuto aspettare che fossi io a volere un figlio! Te l’avevo detto! E invece è nato questo piagnucolone.” – strillava il padre.
Non gli piaceva nulla di Matteo. E il bambino ci si era abituato. Suo padre spesso non c’era. Poi se n’era andato del tutto. Aveva detto che avrebbe mandato soldi, ma il figlio non lo voleva vedere. Non era quello che sperava. Forse un giorno.
La madre di Matteo era carina. Capelli lunghi color miele, occhi grandi. Per lui sembrava una sirena. Lavorava tanto.
Una sera tornò a casa con lo zio Michele. Era il suo capo al lavoro e le aveva offerto un passaggio, visto che tornava carica di buste della spesa.
“Ciao, piccolo. Io sono lo zio Michele. Sono venuto a trovarvi. Se disturbo, me ne vado subito. Ho portato dei pasticcini. E un aeroplanino. È vecchio, me l’ha regalato mio nonno. Tua mamma mi ha detto che ti piace la tecnica. E poi un coniglietto di peluche. Guarda com’è morbido, sembra vero!” disse lo zio Michele.
La sua voce era calma, dolce. Rimase impacciato sulla soglia. Matteo stava in silenzio. Aveva paura.
“Non importa, Sofia. Vado via. Il piccolo vuole stare con te.” E lo zio Michele, lasciando i pacchetti, si avviò goffamente verso la porta.
Camminava proprio come un orsacchiotto. Matteo sorrise senza volerlo. E gli corse incontro.
“Non andare via, zio!”
Lo zio Michele lo sollevò in braccio. Profumava di colonia, di pane fresco e di casa.
“Ma che bel bambino che sei! Che carino! Quando sarai grande, tutte le ragazze saranno pazze di te! Sofia, ma che tesoro hai qui! Non ne ho mai visti così!” esclamò lo zio Michele con gli occhi che brillavano.
Da allora cominciò a venire spesso. Si sedeva per terra in giacca e cravatta e giocava con Matteo. Gli leggeva storie e gli portava libri. Quando la mamma era stanca, cucinava lui. Sapeva fare tutto. Zuppe, polpette, torte squisite. Il padre di Matteo non aveva mai toccato un fornello. Non si versava nemmeno il tè da solo. Diceva che non era roba da uomini.
“Ma tu perché cucini, zio Michele?” chiese timidamente Matteo.
“Mi piace, Matteuccio. Vengo da una famiglia numerosa, sono il più grande. I miei erano sempre impegnati, dovevo badare ai fratelli. E poi, è così bello! Preparare qualcosa con amore, nutrire chi ami. Tua mamma è stanca, lasciala riposare.”
“Ma anche tu lavori tutto il giorno!” fece notare Matteo.
“Ah, io sono forte, non mi fa niente. D’estate andiamo nella mia casa in campagna, è bellissimo. C’è una ranocchia nel pozzo. Te la mostrerò. Andremo a pescare. Raccoglieremo margherite per tua mamma!” Lo zio Michele lo strinse a sé.
Matteo gli si aggrappò con tutte le sue forze. Più di ogni altra cosa al mondo, voleva che lo zio Michele non sparisse mai.
Un mese dopo, per strada, incontrarono suo padre. Per caso. Era con una donna e barcollava.
“Chi è questo? Hai trovato subito un sostituto, eh Sofia? Niente di meglio di questo fantoccio?” rise suo padre.
E la donna con lui rise ancora più forte.
Lo zio Michele tacque.
“Papà, è lo zio Michele. Non insultarlo!” disse Matteo.
“Cosa? Ripeti, moccioso! Ti è cresciuta la voce? Quale zio Michele?” E suo padre afferrò lo zio Michele per la giacca.
“No! Papà, ti prego, no!” gridò Matteo, aggrappandosi alla gamba del padre.
Da quel giorno, i nonni paterni lo presero più spesso con sé. Criticavano sua madre. Lo zio Michele. Dicevano che il padre è uno solo, e che lo zio Michele non contava nulla.
Matteo provò a parlarne con lui.
“Hanno ragione, Matteo. Lui è tuo padre, devi rispettarlo, onorarlo, amarlo. Perdonami se… se mi sono intromesso. Forse senza di me le cose si sarebbero sistemate.” sussurrò lo zio Michele, scuotendo la testa.
“No! Non si sarebbero sistemate! Non lasciarci, zio Michele, ti prego!”
Matteo cresceva. E a casa era tutto silenzio e serenità. Lo zio Michele non stava mai fermo. Lavorava, coltivava l’orto in campagna. Cucinava, faceva conserve, leggeva storie a Matteo. Gli insegnava a costruire oggetti di legno. Comprò un’auto e teneva Matteo sulle ginocchia, lasciandogli sterzare. Spesso sentiva dire allo zio Michele:
“Riposati, Sofia! Ci penso io.”
Le vicine, vedendoli tornare a casa insiemeMatteo invecchiò con il cuore pieno di gratitudine, sapendo che l’amore vero non ha bisogno di sangue, ma solo di un’anima buona come quella dello zio Michele che, anche se non c’era più, continuava a brillare per lui come il sole di quegli anni lontani.