Ha detto che non sono adatto a fare il padre ma io ho cresciuto quei bambini fin dal primo giorno.
Quando mia sorella Sofia iniziò il travaglio, ero lontano, a un raduno di moto in Toscana. Mi supplicava di non annullare il viaggio, insistendo che tutto sarebbe andato bene, che cera ancora tempo.
Ma il tempo non bastò.
Nacquero tre meravigliosi bambini e lei non ce la fece.
Ricordo quei fagottini minuscoli che stringevo nel reparto di neonatologia. Avevo ancora addosso lodore di benzina e del giubbotto di pelle. Non avevo un piano, né la più pallida idea di cosa fare. Ma li guardai Giulia, Luca e Matteo e capii: non me ne sarei mai andato.
Le uscite notturne diventarono poppate notturne. I ragazzi della mia officina mi coprivano i turni, così potevo portare i piccoli allasilo. Imparai a fare le treccine a Giulia, a calmare Luca quando perdeva la pazienza, a convincere Matteo a mangiare qualcosa di diverso dalla pasta al burro. Rinunciai ai viaggi più lunghi. Vendetti due moto. Costruii a mano un letto a castello.
Cinque anni. Cinque compleanni. Cinque inverni tra influenze e mal di pancia. Non sono stato perfetto, ma sono rimasto. Ogni singolo giorno.
Poi arrivò lui.
Il padre biologico. Non era nei certificati di nascita. Non aveva mai visitato Sofia durante la gravidanza. Secondo lei, aveva detto che i gemelli non si adattavano al suo stile di vita.
Ma ora? Voleva portarli via.
E non era solo. Con lui cera unassistente sociale di nome Elena. Guardò le mie tute macchiate dolio e dichiarò che non ero un ambiente adatto per crescere quei bambini.
Non credevo alle mie orecchie.
Elena fece un giro per la nostra casa, piccola ma ordinata. Vide i disegni dei bambini attaccati al frigorifero, le biciclette in giardino, gli stivaletti allingresso. Sorrideva, gentile, ma prendeva appunti. Notai che il suo sguardo si fermò troppo a lungo sul tatuaggio dietro il mio collo.
La parte più dura? I bambini non capivano. Luca si nascose dietro di me. Matteo scoppiò a piangere. Giulia chiese: Questo signore sarà il nostro nuovo papà?
Risposi: Nessuno vi porterà via. Solo passando sopra al mio cadavere.
E ora ludienza tra sette giorni. Ho un avvocato. Bravo. Costosissimo, ma ne vale la pena. La mia officina è a malapena in piedi, perché gestisco tutto da solo, ma venderei anche lultimo cacciavite pur di tenermi i miei bambini.
Non sapevo cosa avrebbe deciso il giudice.
La notte prima delludienza non riuscivo a dormire. Ero seduto in cucina, con in mano un disegno di Luca: ero io che li tenevo per mano davanti alla nostra casa, con un sole e qualche nuvola in un angolo. Scarabocchi infantili, ma, a dirla tutta, in quel disegno sembravo più felice di quanto lo sia mai stato in vita mia.
La mattina indossai la camicia che non mettevo dai funerali di Sofia. Giulia uscì dalla sua stanza e disse: Zio Marco, sembri un avvocato.
Speriamo che al giudice piacciano gli avvocati, dissi, cercando di scherzare.
Il tribunale sembrava un altro pianeta. Tutto beige e lucido. Davanti a me, seduto con un abito costoso, cera Giovanni, che recitava la parte del padre premuroso. Aveva persino portato una foto dei bambini in una cornice nuova, come se volesse dimostrare qualcosa.
Elena lesse la sua relazione. Non mentì, ma nemmeno mitigò le parole. Parlò di risorse limitate, preoccupazioni per lo sviluppo emotivo e, ovviamente, mancanza di una famiglia tradizionale.
Stringevo i pugni sotto il tavolo.
Poi toccò a me.
Raccontai tutto al giudice. Dalla chiamata su Sofia fino al giorno in cui Matteo mi vomitò sulla schiena durante un viaggio e io non mi mossi nemmeno. Parlai del ritardo nel linguaggio di Luca e del secondo lavoro che presi per pagare la logopedista. Dissi che Matteo imparò a nuotare solo perché gli avevo promesso una pizza ogni venerdì se non si arrendeva.
Il giudice mi fissò e chiese: Davvero crede di poter crescere da solo tre bambini?
Ingoiai la saliva. Avrei potuto mentire. Ma non lo feci.
No. Non sempre, risposi. Ma lo faccio. Ogni giorno, da cinque anni. Non lho fatto per obbligo. Lho fatto perché loro sono la mia famiglia.
Giovanni si chinò in avanti, come per dire qualcosa, ma rimase in silenzio.
E poi accadde qualcosa.
Giulia alzò la mano.
Il giudice, sorpreso, disse: Sì, piccola?
Lei si alzò in piedi e disse: Zio Marco ci abbraccia sempre. E quando abbiamo incubi, dorme sul pavimento accanto a noi. Una volta ha venduto la moto per riparare la caldaia. Non so comè un papà, ma noi ne abbiamo già uno.
Silenzio. Assoluto.
Non so se fu quello a convincere il giudice. Forse aveva già deciso. Ma quando pronunciò la sentenza La custodia rimane al signor Marco Rossi sbottai in un sospiro che trattenevo da anni.
Giovanni non mi degnò nemmeno di uno sguardo mentre se ne andava. Elena mi fece un cenno, quasi impercettibile.
Quella sera preparai bruschette e minestrone il piatto preferito dei bambini. Giulia ballava sul tavolo della cucina. Matteo brandiva un cucchiaio come una spada. Luca mi si strinse addosso e sussurrò: Sapevo che avresti vinto.
E in quel momento, tra il caos e la stanchezza, mi sentii luomo più ricco del mondo.
Famiglia non è sangue. È chi resta. Sempre. Anche quando è difficile.
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