Quella mattina mi ritrovai sullo stesso bordo del letto dove mi ero addormentata la sera prima. Gli occhi mi bruciavano, la bocca era secca e la testa pulsava. Il telefono vibrava senza sosta, ma non osavo rispondere. Sapevo chi cercava: mia madre, mia sorella, forse unamica. Che cosa avrei potuto dir loro? Come avrei potuto spiegare che luomo con cui avevo costruito una vita, in una notte sola, aveva fatto le valigie e se nera andato?
Mi alzai in punta di piedi per andare in cucina. Mio figlio dormiva ancora. Misi lacqua a bollire per il tè, ma le mani mi tremavano così tanto che ne rovesciai metà sulla tazza. Guardai il liquido allargarsi sul tavolo, senza nemmeno la forza di asciugarlo. Un silenzio innaturale mi circondava, non era pace, era rovina.
«Due mesi fino alludienza.» Le sue parole mi rimbombavano dentro come una sentenza. Come se il mio futuro fosse già deciso, senza che io avessi voce in capitolo.
Quel giorno non andai al lavoro. Scrissi un messaggio alla mia capa: «Motivi personali. Tornerò domani.» Non avrei saputo aggiungere altro.
Quando mio figlio si svegliò, mi fissò con quei grandi occhi castani, così simili a quelli di suo padre, e mi chiese solo una cosa:
«Mamma, dovè papà?»
Sentii il dolore trafiggermi. Mi chinai, gli accarezzai i capelli e gli dissi la prima bugia che mi venne in mente:
«È dovuto andare via. Parleremo con lui più tardi.»
Non riuscivo a dirgli la verità. Volevo proteggerlo, almeno per qualche giorno.
La sera arrivò il messaggio: «Sono arrivato. Non cercarmi. Ci sentiremo tramite gli avvocati.»
Nessuna domanda su suo figlio, nessuna preoccupazione. Solo parole fredde. Lo cancellai, ma quelle lettere continuavano a bruciarmi dietro le palpebre.
I giorni passavano tutti uguali, grigi e pesanti. Mattina a lavorare, pomeriggio a casa, i compiti con mio figlio, sorridergli come se tutto fosse normale. Ma di notte, quando si addormentava, crollavo a terra e piangevo in silenzio.
Gli amici lo seppero poco a poco. Cera chi mi diceva di dimenticarlo, chi mi incoraggiava a lottare per ciò che mi spettava. La voce di mia madre fu la più forte:
«Piccola mia, non lasciarti spezzare da un uomo che ti ha gettato via il cuore. Tu sei forte. Hai tuo figlio. Lui è il tuo tesoro più grande.»
Annuii, ma dentro ero ancora in macerie.
Il primo vero scontro avvenne nello studio degli avvocati. Lui entrò sicuro di sé, la faccia distesa, la giacca profumata, accanto a lui la nuova donnauna figura dai capelli scuri, con un sorriso arrogante, carica di oro e gioielli.
Lo stomaco mi si strinse, ma mi tirai su. Per mio figlio, non potevo mostrare debolezza.
«Venderemo la casa e divideremo il ricavato,» annunciò il suo avvocato, come se non stesse parlando del posto dove nostro figlio aveva imparato a camminare.
«No. Mio figlio ha bisogno di stabilità. Restiamo qui. Possono prendersi altre proprietà, ma la casa rimane nostra.»
Lui mi guardò gelido:
«Non decidi tu. Deciderà il tribunale.»
La rabbia mi montò dentro, ma la ingoiai e dissi con fermezza:
«Il tribunale ascolterà anche la voce del bambino.»
Per un attimo esitò. Sapeva che nostro figlio gli voleva bene, ma sentiva anche la sua mancanza.
Il processo durò mesi. Ero stanca, ma imparai a resistere. Lavoravo, mi prendevo cura di mio figlio e ricostruivo la mia vita. Un giorno, mio figlio portò a casa un compito. Sulla pagina cera scritto: «La persona più forte della mia vita è la mia mamma.»
Piansi, ma non di dolore, stavolta. Di gratitudine.
In tribunale, il giudice si rivolse a mio figlio:
«Con chi vuoi vivere?»
Il bambino mi guardò, poi suo padre, e rispose lentamente ma con certezza:
«Con la mamma. Lei non mi ha mai lasciato.»
Fu come se montagne mi fossero crollate addosso. Il volto di mio ex marito si contorse, il sorriso gli crollò.
Settimane dopo, arrivò la sentenza: la casa sarebbe rimasta a me e a mio figlio. Lui avrebbe avuto altri beni. Laffidamento completo era mio.
Quando uscii dal tribunale, per la prima volta da mesi, mi sentii libera. Fuori pioveva, ma ogni goccia era purificante.
Mio figlio mi prese la mano e disse solo:
«Mamma, andiamo a casa.»
«Casa.» Non più un appartamento diviso, non un luogo dove avevo versato lacrime, ma il nostro rifugio, nostro, solo nostro.
Capii allora che la vita non era finita. Stava davvero ricominciando.
Forse non sarei mai più stata quella donna «magra, allegra, bella» che lui voleva. Ma sarei diventata qualcosa di molto più forte: una madre. Una donna che aveva ricostruito dalle macerie e imparato a modellare il futuro con le proprie mani.
E per quanto avesse cercato di farmi credere alle sue parole velenose«dopo i trentacinque nessuno ti guarderà più»sapevo che si sbagliava. La vita si riapre, sempre, sotto una luce nuova.
Sorrisi, per la prima volta davvero, dopo tanto tempo, e dissi solo a me stessa: «Non era la fine. Era linizio.»




