Oggi è un giorno pesante. Scrivo queste parole per non dimenticare, perché la vita a volte è troppo ingiusta.
Francesca se ne andava lentamente, tra atroci dolori. Il suo corpo, sfinito dalle chemio, non aveva più la forza di lottare. Nemmeno lei voleva resistere – dopo mesi di sofferenza, desiderava solo la pace. I farmaci la tenevano in un torpore costante, a volte riemergeva per un attimo, come chi annega, per poi sprofondare di nuovo in quel sonno che le dava tregua.
Gabriella tornava da scuola, entrava nella stanza impregnata di quell’odore stantio dei malati gravi, fissava la mamma a lungo. Non era più la stessa donna allegra che rideva sempre. Adesso giaceva immobile, gli occhi chiusi, e Gabriella controllava ansiosamente il lento salire e scendere del lenzuolo sul petto – respirava ancora?
“Mamma. Mamma, mi senti?” chiamava piano.
Le palpebre di Francesca tremavano, ma non trovavano la forza di aprirsi. Poi arrivava nonna Lucia e la trascinava via.
“Vieni, tesoro, ti preparo qualcosa da mangiare, poi facciamo i compiti. Lascia che la mamma riposi.”
“Ma dorme sempre! Quando guarirà? Voglio che torni tutto come prima.”
“Ah, piccola, lo vorrei anch’io. Il sonno è la prima medicina,” sospirava nonna Lucia, posando davanti a lei una scodella di minestra calda e sedendosi di fronte, trattenendo le lacrime.
«Che ingiustizia… Io sono ancora qui, e mia figlia se ne va. E non posso far nulla. Quante preghiere, quante messe… Cosa ho fatto di male, Signore?» pensava, con il cuore stretto in una morsa.
Francesca morì all’alba. Lucia si era svegliata alle tre per andare in bagno, aveva sbirciato nella stanza – la figlia era immobile, ma viva. Ne era certa. Poi si era riaddormentata, agitata, e sognò una piccola Francesca che correva via ridendo, voltandosi ogni tanto. «Aspetta! Dove vai? Torna indietro!» gridava nel sonno, e si risvegliò di colpo.
Corse nella stanza di Francesca. Adesso giaceva lì, fredda, lontana. Lucia chiuse la porta piano. In cucina, scaldò l’acqua per il tè, preparò le frittelle per Gabriella e solo allora la svegliò.
Gabriella fece colazione, indossò il grembiule e andò da sua madre – salutarla prima di scuola era un rituale.
“Non entrare, lasciala dormire,” la fermò Lucia. “Prendi una mela nello zaino, piuttosto.” Gliene porse una, rossa e lucida.
Camminarono verso scuola, e Lucia ascoltava distratta i racconti di Gabriella.
“Che hai oggi? Sei strana.”
“Non ho dormito bene, sono stanca,” si giustificò la nonna.
Tornata a casa, chiamò subito l’ambulanza.
“È morta quando? Perché ha aspettato tanto?” chiese la dottoressa con tono secco.
“Dovevo portare Gabriella a scuola. Non doveva vederla così…”
Poi aspettò il furgone funebre. Fortuna volle che arrivasse presto – portarono via Francesca prima che Gabriella tornasse. Per tutta strada, Lucia cercò le parole per dirglielo, ma nulla le sembrava giusto. A casa, per un attimo si distrasse, e Gabriella irruppe nella stanza vuota.
“Dov’è la mamma?” si girò verso di lei, gli occhi lucidi.
Lucia, esausta dalle domande, dalla fatica, disse la prima cosa che le venne in mente:
“L’hanno portata in ospedale.” Distolse lo sguardo.
Forse Gabriella capì, o forse si sentì tradita dal silenzio di nonna Lucia. Rifiutò la cena, si rannicchiò sul divano voltando le spalle alla stanza. Lucia non aveva la forza di consolarla. Chi avrebbe consolato lei? Si chiuse in bagno, aprì l’acqua e chiamò Marco, l’ex marito di Francesca. Aveva trovato il suo numero nel telefono della figlia quella mattina.
“Che vuoi?” ringhiò lui, credendo fosse Francesca.
“Sono Lucia, la madre di Francesca. È morta stamattina. Potresti tenere Gabriella per qualche giorno? Le ho detto che sua mamma è in ospedale… Ho così tanto da fare, non riesco a dirle la verità.”
“Arrivo subito,” rispose Marco, più calmo.
Mezz’ora dopo suonava al citofono. Gabriella, ancora arrabbiata con la nonna, lo vide e persino si illuminò.
“Come va?” lui si sedette accanto a lei. “La scuola ti annoia?”
“No,” rispose lei. “Hanno portato la mamma in ospedale. E la nonna non vuole andare a trovarla.”
“Significa che ancora non si può. Ma io ti propongo una passeggiata. Andiamo al parco? Gelato, cinema…”
“Davvero?” esclamò Gabriella.
Intanto Lucia preparava la borsa di Gabriella. Prima che partissero, la diede a Marco. Se ne andarono, e lei corse all’ospedale. Troppe cose da sistemare, troppe da ricordare.
L’organizzazione del funerale la finì. Alla sera crollava dalla stanchezza, nemmeno le lacrime avevano più forza di uscire. E quel dolore al petto… «Devo resistere. Non posso cadere ora,» si ripeteva, ingoiando una pastiglia dopo l’altra.
Dopo il funerale, verso sera, Marco chiamò:
“Quando vuoi che ti riporti Gabriella?”
“Ti sei già stufato?” avrebbe voluto ribattere Lucia, ma le uscì solo un lamento.
“Vuole tornare a casa. Arriviamo tra poco. Dobbiamo parlare.”
Un’ombra di paura le strinse il cuore. «Cosa vuole ancora? Quale altra disgrazia mi aspetta?» Si costrinse ad alzarsi. Mise l’acqua sul fuoco, tirò fuori dal frigo gli avanzi del pranzo funebre – affettati, focacce – e lasciò sul tavolo la bottiglia mezzo piena di grappa. Che almeno bevesse un bicchiere in suo ricordo, fosse pure l’ex marito.
Quando vide Gabriella, scoppiò a piangere. Quanto le era mancata! La bambina si strinse a lei.
“Vieni, ho fatto le focacce e il succo d’uva.”
Si sedettero a tavola. Marco afferrò subito la bottiglia, si versò un bicchiere colmo. Stava per fare un brindisi, ma intercettò lo sguardo di Lucia e tacque. Mandò giù la grappa d’un sorso, senza spremerne una goccia. Poi Lucia chiese a Gabriella di andare in camera – dovevano parlare con il papà. La bambina uscì a malincuore, e Lucia chiuse bene la porta.
“Dimmi cosa volevi,” sospirò.
“Non guardarmi così, Lucia. Voglio il tuo bene.”
“Mi hai già fatto tanto bene che mia figlia non l’ha sopportato,” ribatté lei.
“Ecco, non è colpa mia se tua figlia non era certo una santa,” alzò la voce Marco.
“Zitto!” lo redarguì Lucia. “Parla e basta. E non osare nominarla.”
“D’accordo.” Marco bevve di nuovo, impassibile. “Ecco cosa volevo dirti. Gabriella è piccola, tu sei anziana. Se qualcuno scopre che sua madre è morta, te la portano via.”
“E tu lo dirai, vero?” sbottò Lucia.
“Tu… diciamo che non sei più giovane. Potresti non reggere. A te non lascerebbero una bambina. Io sono suo padre, sano e forte.”
“E cosa suggerisci?” LeLucia, con il cuore in pezzi ma risoluta, guardò Marco fisso negli occhi e sussurrò: “Mai, mai ti permetterò di strapparmi Gabriella, perché la vita mi ha già tolto troppo, ma lei sarà la mia luce fino all’ultimo respiro”.