— Vuoi che REGALI a tuo padre un’auto?! Sei pazzo? O nella tua famiglia si cura così l’autonomia femminile?!

“Ma davvero?” La voce di Marco tremò, ma non per lo stupore, bensì per lo sforzo di non dire qualcosa di cui poi si sarebbe pentito. Era seduto sul bordo del divano, lo sguardo fisso sulla confezione di sushi che lui e Giulia non avevano nemmeno toccato. “Hai davvero comprato una Porsche?”

“Non una Porsche, una Taycan. Elettrica. Almeno imparane il nome, se vuoi farmene una colpa,” rispose Giulia senza alzare gli occhi dal telefono. Nella sua feed di Instagram, una collega aveva postato una foto da una conferenza a Zurigo. Tutti in giacca, ma con bicchieri di prosecco in mano. Come al solito.

Nell’appartamento si mescolavano l’odore di wasabi, il nervosismo e il bagno appena pulito — Giulia l’aveva strofinato di fretta prima che Marco arrivasse, anche se sapeva già che non sarebbe servito a nulla.

“Non capisco proprio, a che ti serve un’auto del genere?” Marco si alzò e iniziò a passeggiare per la cucina. “Non sei un pilota. Non sei una miliardaria. Credi davvero che la gente ti rispetterà di più se giri con quell’… astronave?”

“Sì. Esatto. E potrò parcheggiare non in mezzo al nulla, ma nei posti giusti, dove ci sono le colonnine. E, immagina, non dovrò stare nel traffico perché la Taycan ha l’adaptive cruise. Non è una questione di ostentazione, Marco. È comfort, sicurezza e — ta-dah! — i miei soldi.”

“Hai sentito cos’ha detto papà?” disse lui con tono pesante, come se ripetesse una formula imparata a memoria.

“Sfortunatamente, sì, l’udito ce l’ho ancora perfetto.” Giulia finalmente abbassò il telefono. “Ha detto che una donna non dovrebbe avere un’auto del genere, perché ‘provoca eccitazione malsana nella società maschile’. Testuali parole, tra l’altro.”

“È solo preoccupato. È vecchio stampo.”

“È stampo fossilizzato, Marco. E tu stai prendendo la stessa piega se non dici qualcosa che assomigli almeno vagamente a un sostegno.”

Marco aprì la bocca come per parlare, ma la richiuse. Come se dentro di lui ci fosse una vecchia TV in bianco e nero — suono sì, immagine no.

“Perché non ne hai parlato con me? Siamo una famiglia. Avrei potuto…”

“Che cosa? Suggerirmi di prendere una Fiat Panda, come quella di tua madre? O magari cambiare idea e comprarti la Station wagon di nonno?”

Lui sorrise, ma senza gioia:

“Grazie per la fiducia.”

Giulia sospirò e lo guardò come si guarda una sedia con una gamba rotta: ancora in piedi, ma ormai rischiosa.

“Marco, hai mai avuto la sensazione di poter fare ciò che vuoi? Senza doverti preoccupare delle opinioni, aspettative o capricci degli altri?”

“Io non ho il tuo stipendio, se è questo che intendi.”

“Non parlo di soldi. Parlo di libertà interiore.”

Lui scrollò le spalle, come se quelle parole gli provocassero allergia.

“Lo sapevi che i miei genitori sono così. Sapevi in cosa ti stavi mettendo.”

“Speravo che almeno iniziassero a rispettarmi. O che tu lo facessi.”

Il silenzio nella stanza divenne più denso della carbonara del chiosco vicino alla metro. Marco si sedette di nuovo, a capo chino.

“Loro pensano solo che dovresti essere più… femminile.”

“Ah, ecco. E magari anche senza patente, senza opinioni e con eterna gratitudine per la fede nuziale?” Giulia sorrise amaramente. “Mi spiace, ma non sono un contorno. Sono una persona autonoma.”

Lui distolse lo sguardo. E in quel momento, come in un teatro dell’assurdo, bussarono alla porta. Troppo sicuro per un fattorino. Troppo delicato per la vicina.

“È mamma,” sospirò Marco, alzandosi. “Voleva passare a vedere come stiamo.”

“È ‘casualmente’ nei paraggi? O ha messo un tracker alla mia auto?” Giulia alzò un sopracciglio e si aggiustò la camicetta.

“Per favore… sii gentile, ok?”

“Lo sono già come un bagnoschiuma. E tu dovresti imparare a non essere una spugna.”

La porta si aprì. Entrò Anna Maria con una busta dell’Eataly, l’aria di chi non fa una visita, ma un’ispezione.

“Eccoci, piccoli miei. Vi ho portato un’insalata bio, senza nitrati, giusto per farvi un po’ di bene.” Gettò un’occhiata a Giulia, scivolando con lo sguardo sui suoi tacchi. “E tu perché così elegante? Hai un appuntamento?”

“Io sono sempre così. Non posso permettermi di vestirmi come una pensionata in congedo,” rispose Giulia con calma.

“E questa a chi la dici?” fece Anna Maria, aggrottando le sopracciglia.

“All’immaginario collettivo, non la prenda sul personale. Ma se le calza…”

“Marco, tu glielo permetti di parlare così?” La suocera si rivolse al figlio, ignorando Giulia come una stampante spenta.

“Lui non è il mio custode. Né il traduttore da italiano a familiare,” disse Giulia passandole accanto e prendendo il sushi dalla cucina. “Vuole un tè? O passiamo direttamente alla discussione sulla mia indegna automobile?”

“Vedi che lo capisci da sola, brava.” Anna Maria sorrise. “A noi e a tuo suocero servirebbe di più quell’auto. Noi andiamo in campagna, in visita alle seconde case. A te a cosa serve? Solo per sfoggio?”

“Esatto. E anche per vendetta. Verso di voi.” Giulia lo disse piano, tranquilla. Come un chirurgo che annuncia un’appendicite ormai degenerata.

Un silenzio pesante. Persino Marco sembrò capire che era successo qualcosa di serio. Giulia rimise giù il sushi.

“Scusate, ma non ho più la forza di fingere che tutto questo sia normale.”

“Che cosa sarebbe ‘tutto questo’?” chiese la suocera, confusa.

“Tutto. Che veniate qui come se fosse un turno di controllo. Che Marco stia zitto come un monumento alla sua infanzia. Che mi si dica come devo vivere, vestirmi, spendere i miei soldi. È finita.”

Si tolse i tacchi, come se si liberasse di un’armatura, e andò in camera. Marco rimase a bocca aperta, mentre Anna Maria lo fulminò con lo sguardo:

“Mi umilia davanti a te e tu stai lì come un pesce lesso! Non si può vivere così!”

“Infatti non lo faremo più,” risuonò la voce di Giulia dalla stanza. Calma, ma tagliente come una lama.

Giulia si svegliò per un rumore che sembrava un terremoto o, almeno, l’ascensore che si rompeva. Era l’armadio — sbattuto con tale forza che il vecchio palazzo tremò fino alle tubature. Marco cercava dei documenti. Non i suoi, ovviamente. I suoi. Quelli dell’auto.

“Ma sei serio adesso?” La sua voce era roca, come quella di un presentatore che ha fumato troppo. La lite della sera prima le aveva lasciato il segno.

“Dov’è il libretto?” Marco non si voltò nemmeno. Indossava quei pantaloni da casa con le ginocchia consumate, quelli che usava per sistemare il router o per borbottare “vabbè, mi faccio io la pasta”.

“È nello stesso posto dove sono i tuoi attributi. Da qualche parte, sepolti sotto la paura dei tuoi genitori.” Giulia si alzò, si infilò la vestaglia e gli passò accanto, fingendo disinteresse. “Non lo troverai. L’E quella sera, mentre il suo Taycan luccicava sotto la luna come un promemoria silenzioso di ogni battaglia vinta, Giulia sorseggiò un prosecco in terrazza, finalmente libera di respirare l’aria che meritava.

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