Quando i nonni erano in vita, credevo fossero la mia vera famiglia.

Quando i nonni erano ancora vivi, pensavo che loro fossero la mia vera famiglia.

Perché?

Beh, perché mia mamma era sempre impegnata a trovare lavoro per madri rimaste senza il sostegno dei familiari. Faceva una qualche sorta di assistente sociale. E mio papà… lui era un artista in famiglia, sempre in cerca di se stesso tra pittura, teatro e altre forme d’arte, fino a perdersi nell’immenso mare della vita umana.

La mamma mi amava, ma era un amore frenetico e discontinuo. Una volta alla settimana veniva a trovarci dai nonni, portando cibo e regali. Mi baciava con fervore e poi si sedeva a tavola, pranzava e beveva grappa con il nonno, mentre la nonna distoglieva lo sguardo lisciando la tovaglia davanti a sé. Poi, esplodeva in idee e parole e spariva di nuovo, per una settimana o anche di più se era molto occupata al lavoro.

Io restavo con i “genitori”, vivendo tranquillo e sereno con l’orto della nonna e le passeggiate nei boschi con il nonno, ascoltando i loro interminabili “discorsi filosofici” sulla vita trascorsa.

La mia nonna era maestosa e, ora che ci penso, davvero splendida. Alta, con capelli lussuosi anche in vecchiaia, che pettinava ogni settimana con un pettine semicircolare, regalo di sua madre. Il nonno era magro, deciso, con rughe pittoresche che partivano dalla fronte e scendevano lungo il collo, sotto il colletto della camicia, sempre pulita e stirata dalla nonna.

I maschi della nostra “famiglia” (io e il nonno) erano sempre in ordine, puliti, rasati (e soprattutto io, ben rasato!) e vestiti di fresco,” così diceva il nostro vicinato. Poi, a scuola, ci ho messo un po’ per abituarmi alla parola “strada”, perché nella nostra famiglia usavamo altri termini.

Chi amavo di più? Ancora oggi non posso dirlo, perché per me erano un tutt’uno monolitico, che profumava di minestra e tabacco, latte e sudore, del nostro cortile e del bosco.

Al mattino, quando mi svegliavo, la prima cosa che vedevo era il viso scolpito del nonno, chinato su di me, mentre le sue labbra, sempre secche e calde, sussurravano appena aprivo gli occhi:
“Alzati, Carletto. Nonna ha già preparato le frittelle con l’aglio. E il riccio nel bosco ci aspetta per raccontarci nuove storie.”

Poi mi baciava leggermente, sfiorando appena la mia guancia con le sue labbra ruvide. E io piagnucolavo, non capendo ancora che quella era la felicità:

“No, nonno, non voglio ancora… Dormirò ancora… E voglio le frittelle con la marmellata, non con l’aglio.”
“E questo possiamo sistemarlo subito,” diceva il nonno allarmato, “dirò subito alla nonna di cambiare!”
E gridava verso la cucina:
“Nonna Marisa, nonna Marisa! Il nostro re vuole le frittelle con la marmellata! Capito?!”

Un attimo dopo, compariva la nonna sulla soglia, dicendo:
“Come se non lo sapessi! E c’è già la marmellata nella vaschetta blu. Venite subito!”

Quando mi lavavo, loro erano entrambi lì, con la nonna che reggeva l’asciugamano, sul quale aveva ricamato un capretto (con punto pieno!), mentre il nonno cercava debolmente di strapparlo dalle sue mani.

Poi mangiavamo. Io e il nonno. Perché la nonna non si sedeva a tavola, ma si occupava di noi, creando un’atmosfera accogliente e dando importanza al processo in cui gli uomini della casa mangiavano.

Poi io e il nonno ci alzavamo dal tavolo e, risparmiando parole, elogiavamo la nostra padrona di casa:
“Abbiamo mangiato bene, madre…”
“Sì, nonna!…”
E uscivamo a fumare in cortile.

A fumare, naturalmente, era il nonno, e io mi sedevo vicino a lui, mi accoccolavo al suo fianco, guardandolo con la coda dell’occhio e mettendo le mani sulle ginocchia come faceva lui.

“E allora? Sei pronto per affrontare la vita oggi?” chiedeva il nonno.
Rispondevo solennemente, ma non subito:
“Sì…”

Ci alzavamo dal portico, sputavamo entrambi sul mozzicone di sigaretta (perché dopo aver sputato, il nonno mi passava il mozzicone sotto il naso!) e chiedevamo alla nonna invisibile, mentre in casa sentivamo già il rumore delle stoviglie:

“Non hai bisogno di niente per ora? Perché allora andiamo, andiamo nel bosco.”
“Sì, nonna!”
Dalle profondità della casa si sentiva:
“Andate pure, e io intanto penserò a cosa farvi fare durante il giorno!”

Il nonno prendeva (il nonno prendeva) i cesti di vimini (uno grande per lui e uno piccolo, quasi giocattolo, che il nonno aveva intrecciato per me). Andavamo nel bosco. E lui mi spiegava perché il picchio ha la testa rossa, perché i pini hanno gli aghi più lunghi degli abeti, perché la mamma veniva raramente, perché i ricci, quando li prendi in mano, fanno “soffiare”, perché il papà era sparito, perché i cappelli delle mazze hanno l’aspetto viscido, perché la nonna è così bella e il nonno… “non così tanto” (diceva lui stesso).

A mezzogiorno, quando nel bosco iniziava a fare caldo, tornavamo a casa. E sempre con trofei: funghi, bacche, erbe che si mettono nel tè, profumate.

La nonna ci dava da mangiare di nuovo, poi mi sistemava nella veranda fresca, su una panca, per “rilassarmi dopo il pranzo” e dormire. Il nonno mi copriva con il suo vecchio cappotto profumato e si sedeva accanto a me finché… finché… finché non arrivava un uccellone gigante dagli occhi blu, che mi guardava e chiedeva: “Allora, Nicolino, sei stato bravo oggi? Non hai fatto dispiacere al nonno e alla nonna?”

Io guardavo fisso fisso… e mi svegliavo…
E lì trovavo la nonna: aveva già versato del latte nella tazza con i papaveri e messo accanto un grande pezzo di pane bianco, che aveva cotto quella mattina insieme alle frittelle.

E poi… poi io e il nonno facevamo qualcosa nel cortile o in casa, e la nonna andava nell’orto a “oziare” e “verificare se tutto era a posto.” Nel frattempo, sarchiava le aiuole, annaffiava qualcosa e faceva altre cose lì.

Io e il nonno lavoravamo perché capivamo che “le faccende degli uomini devono essere fatte dagli uomini della casa e quelle delle donne dalla nonna.”

Ora sono più anziano di quanto fossero i miei nonni allora. E ho avuto un infarto. Sono in ospedale dopo l’operazione. E sto qui a pensare che devo assolutamente sopravvivere, perché sulla Terra ci deve essere qualcuno che custodisce ricordi come questi.

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