Mi viene voglia di affidare mio figlio al mio ex marito. Il ragazzo è diventato ingestibile e non ce la faccio più da sola.
Mio figlio ha 12 anni. Se dieci anni fa qualcuno mi avesse detto che avrei pensato di affidare mio figlio a suo padre, avrei riso in faccia a quel profeta. Ma ora mi trovo sull’orlo del baratro, soffocata dall’impotenza e sento la vita scivolare via da me goccia a goccia. Sto affondando e nessuno mi getta un salvagente.
Mio figlio, Marco, è diventato un estraneo. Discute con me per qualsiasi cosa, si azzuffa a scuola, porta a casa cose altrui e poi, con un sorriso sfacciato, afferma che non si tratta di furto, ma che “le ha prese in prestito per giocare”. Il telefono squilla di continuo: l’insegnante, il preside, i genitori dei compagni di classe. Ogni conversazione è come un pugno nello stomaco, ogni giorno sembra una marcia tra le mine.
Io e mio marito siamo divorziati da tempo. Mia madre vive nel quartiere accanto, qui nella nostra piccola città vicino a Firenze, ma da lei non ricevo nessun aiuto. Solo rimproveri e “consigli saggi” che fanno solo venire voglia di urlare. Viene a trovarci per mezz’ora la sera, sparge critiche e se ne va, lasciandomi con un sapore amarognolo. Marco è completamente sulle mie spalle. Urlo, piango, minaccio, gli ho tolto la paghetta — tutto inutile. Mi guarda con occhi sfidanti e ghigna, come se sapesse che sono impotente, che tutte le mie parole non significano nulla.
Di recente c’è stata l’ennesima esplosione. Ho trovato nello zaino un cellulare che non era suo — era costoso, si vedeva subito che non era uno da poco prezzo.
— Marco, da dove viene questo? — ho chiesto, fissandolo con uno sguardo in cui si mescolavano rabbia e disperazione.
— L’ho trovato, — ha risposto senza neanche batter ciglio.
— Dove l’hai trovato?
— Su una panchina.
— Su quale panchina, accidenti?! Rispondi in modo normale, piccolo delinquente! — ho sbottato. — Capisci che è di qualcun altro? Hai rubato!
— Non ho rubato, l’ho solo preso, — ha risposto tranquillamente.
— E cosa intendevi farci con questo?
— Niente, — ha scrollato le spalle. — Volevo solo guardarlo.
Mi sono sentita soffocare dalla rabbia, dentro di me era come lava in ebollizione.
— Capisci che non si fa così? Non è tuo! Domani andrai a scuola e lo restituirai!
Mi ha guardato con sfida, facendomi tremare le mani.
— Non ci andrò.
— Cosa vuol dire che non ci andrai?! Non permetterti di impormi le tue regole! — ho gridato, perdendo la calma.
— Non ci andrò, e basta.
Non ce l’ho fatta più — le lacrime sono scese a fiotti, mentre lui se n’è andato nella sua stanza, come se nulla fosse successo, come se le mie lacrime non fossero degne della sua attenzione.
Il giorno dopo ho chiamato suo padre, Giovanni. Avevo la voce tremante, ma ho raccontato tutto:
— Si tratta di Marco. Non ce la faccio più. È diventato un estraneo, ruba, è impertinente. Potresti prenderlo con te? Ha bisogno di un esempio maschile. Ho paura che lo perderemo e che cresca come un criminale.
Giovanni è rimasto in silenzio. Poi ha emesso un pesante sospiro.
— Sai che ora non posso. Lavoro fino a tardi, non ho tempo per educarlo.
— E io pensi che ne abbia di tempo?! — mi sono infuriata. — Sono da sola! Mia madre mi accusa solo di averlo perso. Tu sei occupato, io sono occupata — qualcuno mi aiuterà?!
— Ma sei tu la madre… — ha cominciato lui.
— E tu sei il padre! — l’ho interrotto. — Un genitore quanto me!
Ha borbottato qualcosa sul “pensare” e ha attaccato. La sera è venuta mia madre. Ho deciso di parlarle del mio piano, ed è stato un incubo.
— Elena, sei impazzita?! — ha urlato appena ho aperto bocca. — Affidare il figlio al padre? Come ti è venuto in mente?
— Mamma, non ce la faccio. Sono da sola, non ho forze.
— Non ce la fai? Hai messo al mondo un figlio — devi crescerlo! Dove si è mai visto che una madre si rifiuti del proprio figlio?
— E tu mi hai mai aiutato? Sai solo parlare! — ho sbottato. — Porto tutto io da sola — il marito non c’è, tu non ci sei, le amiche non ci sono! Sempre sola!
Se n’è andata sbattendo la porta, ed io sono rimasta in cucina, fissando il vuoto. Forse sono davvero una cattiva madre? Forse è colpa mia se Marco è diventato così — sfacciato, estraneo, smarrito? Ma poi penso: sono umana, non sono di ferro. Sono stanca di essere sia madre che padre, stanca di portare questo peso insostenibile. Sì, sono una madre, ma Giovanni è il padre, e perché dovrei essere responsabile per entrambi?
Da quel giorno Marco esce pochissimo dalla sua stanza, sta in silenzio, mi evita. Ed io sono qui, guardando il telefono e aspettando una chiamata di Giovanni. Ho deciso: se non risponde nei prossimi giorni, lo chiamerò io. Forse accetterà di prendere con sé nostro figlio? O forse dovrei cercare di trovare la forza in me stessa? Non so cosa fare. Voglio salvare il mio ragazzo, ma sento che sto affondando e nessuno mi tende una mano. Come dovrei fare?