**Tre Cose al Mare**
Giorgio arrivò nella casa vicino al mare con una sola valigia. Dentro c’erano solo tre cose: un vecchio maglione di suo padre, impregnato dell’odore di sapone di Marsiglia e di ricordi, una pellicola non sviluppata con nove fotogrammi e un’etichetta che diceva “per dopo”, e una lettera. Sigillata. Non scritta da lui. Una busta pesante con un bordo blu, come un’intonazione estranea in una frase familiare.
La casa era in affitto — semplice, scricchiolante, scrostata. Un tetto inclinato, l’odore umido del legno e un silenzio che nemmeno la radio riusciva a rompere. Tutto era estraneo, ma in qualche modo sincero. Niente turisti, nessuna frenesia — solo febbraio, l’aria salmastra e lunghe pause. La casa sembrava tacere insieme a lui — non si imponeva, era semplicemente lì. Come una persona senza consigli da dare, ma con una spalla su cui appoggiarsi.
Dopo il funerale di sua madre, Giorgio non riusciva più a stare nell’appartamento dove era cresciuto. Ogni oggetto urlava — la coperta, la pentola, l’interruttore, persino la luce del mattino. Tutto era permeato dalla sua voce. Tutto risuonava di assenza. E Giorgio se n’era andato — non per fuggire, ma per scomparire temporaneamente, per non perdere sé stesso del tutto.
La lettera era dentro una vecchia scatolina che sua madre gli aveva dato prima di morire. *”La aprirai quando sarai pronto,”* gli aveva detto, guardandolo dritto negli occhi. Senza richieste, senza rimproveri — solo uno sguardo carico di significato. Giorgio non ce l’aveva fatta. Non subito. Né il giorno dopo, né una settimana dopo. Teneva solo la busta vicino a sé — la prendeva in mano, la rimetteva giù. Come se il peso della carta potesse dirgli quando sarebbe stato “il momento giusto”.
Il mare non lo calmava. Si abbatteva sulla riva con insistenza, quasi con rabbia. Rumoreggiava come una domanda senza risposta. Giorgio camminava lungo l’acqua — il cappotto si inzuppava, le scarpe scricchiolavano, il sale si depositava sulla pelle. Voleva svuotarsi — non pensare, non sentire. Solo camminare. Finché il cuore non si fosse calmato.
Al terzo giorno prese in mano la vecchia macchina fotografica. Lentamente, come fosse la prima volta. Regolava l’obiettivo come se stesse imparando a vivere di nuovo. Scattò otto foto: sassi, vetri, uno stivale solitario, il suo riflesso nella vetrina — capelli arruffati, occhi stanchi. Il nono scatto rimase intatto. Puntò l’obiettivo verso il mare — e poi lo allontanò. Non ora.
Quella sera lavò il maglione. Quello pesante, ruvido, familiare. Mentre l’acqua bolliva nel bollitore, rimase in piedi in cucina, ascoltando gli scricchiolii delle pareti e la solitudine che riempiva la stanza. E all’improvviso — decise. Prese la lettera. Strappò il bordo. La carta si spezzò rumorosamente, come il ghiaccio sotto i piedi.
*”Giorgio. Se stai leggendo questo, vuol dire che alla fine ho trovato il coraggio. Hai sempre detto che non volevi sapere chi fosse tuo padre. Ma ti lascio la scelta. Nella busta c’è un contatto. Lui non sapeva di te. Ma tu hai il diritto. So che capirai perché te lo dico adesso. Anche se non vorrai andare avanti.*
*Con amore. Mamma.”*
Un telefono. Un nome. Solo una riga. Ma dentro c’era un intero mondo nuovo, straniero e familiare insieme. Un mondo di parole, sguardi e passi che non aveva mai conosciuto. Tutto era diventato possibile. E tutto faceva paura.
Giorgio restò seduto alla finestra fino a notte fonda. Il tè si raffreddò. La neve cadeva sulla sabbia, come se volesse calmare il mare. Ma il mare continuava a rumoreggiare. Forte. Ostinato. Come la voce dentro di lui che non smetteva.
Non chiamò. Non perché avesse paura. Ma perché non era pronto ad ascoltare.
Ma la mattina dopo fece il nono scatto. Se stesso. Nel maglione. Con la lettera in mano. La luce era soffusa, come se tutto intorno capisse: era un momento importante. Guardò nell’obiettivo — non per ricordare. Ma per lasciare andare.
Poi uscì verso il mare. Senza nascondersi più. Il vento gli sferzava il viso, si infilava sotto il colletto. Ma lui camminava. Lasciando impronte. Pesanti. Vere. Sue.
A volte tre cose sono tutto ciò che serve per capire: sei qui. Sei vivo. E puoi scegliere cosa fare dopo.