La Leggerezza dell’Essere

**Peso Imponderabile**

A prima vista, nessuno avrebbe sospettato che qualcosa non andasse in Lorenzo. Alto, asciutto, con movimenti precisi e impeccabili, sembrava un uomo con la vita sotto controllo. I suoi abiti erano sempre perfetti: un cappotto scuro, camicie stirate con cura, scarpe lucidate a specchi. Ogni mattina iniziava allo stesso modo: un caffè preso al bar della piazza centrale di Bologna, un lieve cenno alla barista che conosceva il suo ordine a memoria, poi una corsa lungo il fiume Reno, dove incontrava sempre lo stesso vecchietto con un berretto consumato che faceva jogging senza fretta. Dopo, il lavoro nello studio di architettura, dove disegnava progetti con tanta precisione da sembrare che stesse costruendo una fortezza priva di falle, proprio per sé. Tutto era perfetto. Tranne una cosa.

Al mattino, il suo petto sembrava schiacciato da un macigno gelido. Non dolore, solo peso, come se l’aria fosse satura di piombo e quella stessa aria respirata si mischiasse a un’ansia senza nome. Il mondo attorno era lo stesso: le stesse strade, gli stessi volti, lo stesso ritmo. Ma in quella normalità si nascondeva qualcosa di sinistro, come se ogni giorno si ripetesse non per scelta, ma per costrizione. Lorenzo aveva imparato a tacere. “Solo stanchezza”, si diceva, evitando il suo sguardo nello specchio. O, al massimo, “colpa del tempo”. Era più facile che scavare nella verità. Una verità che non conosceva. O che forse temeva di scoprire.

Al lavoro lo rispettavano. Non sforava mai le scadenze, consegnava progetti impeccabili. Se un cliente chiedeva modifiche, lui le faceva senza obiezioni, senza un segno di irritazione. Non discuteva. Non protestava. Cancellava e ricominciava, con la stessa fredda precisione. Il silenzio era il suo scudo. Silenzio significava controllo. Aveva imparato quella regola da bambino. Troppo in fretta. Quando alle parole seguivano i passi pesanti di suo padre e il silenzio di tomba dietro la porta della camera di sua madre. Quando aveva imparato a tossire senza fare rumore, per non attirare attenzione. Quell’abitudine di svanire, di non lasciare tracce, gli si era incollata addosso come l’odore di una casa vecchia. Quasi per sempre.

Una sera, tornando a casa per strade umide, notò la signora Rossi, una vicina anziana, intenta a infilare la chiave nella serratra con mani tremanti. La riconobbe: una pensionata solitaria del primo piano, assente da mesi, quasi inghiottita dalla penombra del palazzo. Si avvicinò e le offrì aiuto. Lei gli porse le chiavi senza parlare, lo sguardo vuoto, eppure per un attimo si illuminò di una vulnerabilità infantile, come quella di un bambino colto alla sprovvista. Lorenzo sentì qualcosa dentro di lui fremere. Il suo silenzio gridava più forte di qualsiasi parola.

Nell’appartamento, l’odore di medicine e fiori appassiti riempiva l’aria, denso come in una stanza dove il tempo si fosse fermato. L’accompagnò alla poltrona, sostenendole il gomito con delicatezza, e stava per andarsene quando lei sussurrò, fissando il pavimento:

“Da te, la sera, si accende la luce?”

La domanda era assurda, ma lo ferì come un coltello. Non rispose. Non poté. Se ne andò, ma la mattina dopo, davanti allo specchio, si vide davvero per la prima volta. Occhi non stanchi, non tristi. Vuoti. Come se dentro non ci fosse più nulla, solo un riflesso.

Andò al lavoro, ma a metà strada cambiò direzione. Salì su un autobus senza meta, osservando le case grigie, l’asfalto bagnato, i volti distratti dei passanti. Nel rumore della città, tra frammenti di conversazioni e il clangore dei tram, ricordò suo padre. Come fissasse il muro per ore, in attesa di una risposta. Come sua madre si muovesse in cucina con un sorriso freddo, invernale. Come in casa regnasse un silenzio non accogliente, ma teso, come prima di una tempesta. Da bambino, Lorenzo aveva deciso che quello era l’unico modo di vivere. Non fare rumore. Non disturbare. Non essere visto. Non essere.

Scese in una fermata sconosciuta e vagò senza meta. La pioggia aveva lasciato pozzanghere, i passanti si riparavano sotto gli ombrelli. Camminò a lungo, finché non si ritrovò davanti a un edificio che riconobbe. Un ospedale. Il reparto di psichiatria. Qui avevano portato sua madre anni prima. Quattordici anni, e nessuno gli aveva spiegato perché. “Un esaurimento”, dissero. Lui non chiese. Le portò delle clementine in un sacchetto, ma lei lo guardò attraverso di lui, come un vetro, senza toccarle. Allora giurò: non sarebbe successo anche a lui. Sarebbe stato più forte. Invisibile al dolore.

Entrò nel pronto soccorso. L’odore di disinfettante gli bruciò le narici, il silenzio era teso come una corda. Guardò le targhette e, per la prima volta in vita sua, disse ad alta voce:

“Ho bisogno di aiuto.”

Non gridò, non pianse. Lo pronunciò con la stessa precisione con cui tracciava linee su un progetto. Ma dentro qualcosa si spezzò, come vecchio ghiaccio, e per la prima volta da anni respirò un po’ più a fondo.

Passarono due mesi. Tornò al lavoro. Le stesse pareti, gli stessi colleghi, lo stesso caffè della macchinetta. Ma qualcosa era cambiato. A volte restava fino a tardi non per nascondersi nel lavoro, ma perché voleva perfezionare un progetto. Ricominciò ad ascoltare musica, non come sottofondo, ma chiudendo gli occhi, come per imparare di nuovo a sentire. Adottò un gatto, un rosso insolente che dormiva sui suoi disegni e lo svegliava con una zampata sul viso. Ogni tanto andava a trovare la signora Rossi, per un tè e una chiacchierata sui vecchi film o sui libri che entrambi avevano amato da giovani. Lei sorrideva più spesso, e il suo sorriso era come una luce calda in una stanza fredda.

Il peso non era sparito. Ma era diventato più leggero. O forse lui era diventato più forte. O forse aveva imparato a conviverci, accettandolo come parte di sé e non come un fardello altrui. Non importava. L’importante era che non era più silenzio. Dentro di lui si era accesa una vita—tranquilla, ma vera.

Era finalmente tornato sé stesso.

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