Maternità Ritardata: Come la Primavera Ricorda i Peccati Indimenticabili

La Maternità in Ritardo: come la primavera ricordò un peccato impossibile da dimenticare

Angela non aveva mai particolarmente desiderato un secondo figlio. Con Massimo avevano già un maschietto, un terremoto di sette anni, e tornare alle notti insonni, ai pannolini, alle coliche e ai capricci proprio non le andava. Soprattutto perché la sua carriera stava finalmente decollando — prospettive, viaggi, gente con cui era leggera, divertente e… niente affatto familiare. Ma la gravidanza arrivò. Per sbaglio, nel momento sbagliato, come sempre accade.

Massimo, però, dichiarò subito di volere una femminuccia. “Magari avrà un carattere più tranquillo,” sorrise lui. Angela annuì. Dentro di sé: rabbia, paura, irritazione. Ma quando la bambina nacque — piccola, bionda, con occhi blu come fiordalisi e un nasino a bottone — Angela rimase senza parole. Qualcosa le si strinse dentro. E subito dopo, come per prendersi gioco di quel lampo di emozione, i medici annunciarono: la neonata aveva un difetto cardiaco congenito. Grave. Ci sarebbero state cure. E un intervento.

Non era nei suoi piani. Per niente. Tutto ciò per cui aveva lavorato poteva crollare. Palestra, feste di lavoro, vacanze in Grecia con le amiche, carriera — e ora questo? No. Non ora. Non a lei.

Massimo ascoltò — e si arrese. Alzò le spalle. E insieme presero una decisione di cui non parlarono mai, neppure tra loro. Dissero a parenti e conoscenti che la bambina era morta.

All’orfanotrofio, la piccola dagli occhi blu fu accolta da Maria Teresa. Lavorava lì da venticinque anni. Si sarebbe pensato che il cuore si fosse indurito per via del dolore e delle vite spezzate ancora prima di cominciare. Invece no. Ogni “rifiutato” le entrava nell’anima. Soprattutto questa bambina. Così quieta, così dolce. La guardava come se cercasse l’unica persona al mondo che potesse amarla.

Maria Teresa cominciò a passare con lei ogni minuto libero. La piccola iniziò a sorriderle, a tendere le manine, a gioire alle sue coccole. E Maria non resistette. Ne parlò col marito.

“Marco, non posso lasciarla lì.”

“Bisogna curarla. Ce la facciamo?”

“Ce la facciamo. È nostra. La chiameremo Speranza.”

L’adottarono. Avevano quasi sessant’anni, la salute non era più quella di un tempo, e i soldi scarseggiavano. Marco lavorava in campagna dall’alba al tramonto. Maria Teresa portava Speranza in ospedale, a visite, in centri di riabilitazione. Dormivano tre ore a notte. Mangiavano quel che passava il convento. Ma un solo sorriso di Speranza ringiovaniva Marco di vent’anni.

Speranza crebbe gentile, sensibile, vivace. Aiutava in casa, adorava la gente. A cinque anni, aiutava la vicina a portare il granoturco: “Nonna Pina, io prendo due pannocchie, così fa meno fatica!” E camminava fiera davanti a tutti con quei pesi enormi per le sue manine, come se fossero corone.

Quando arrivò il momento dell’operazione, tutto il paese pregò per lei. La gente aiutò come poteva: soldi, cibo, parole di conforto. L’intervento andò bene. Speranza sopravvisse. Anzi — sconfisse la malattia.

Diventò grande. Una bellezza. Intelligente. Studiava alla perfezione, si iscrisse all’università, viveva in un dormitorio, tornava a casa per le vacanze, dove l’aspettavano con amore e crostate.

Un giorno di aprile, Speranza passeggiava nel parco. Faceva caldo, il sole danzava tra i rami, gli uccelli cinguettavano, la terra profumava di risveglio. Pensava alle vacanze di maggio, a quando sarebbe tornata dalla mamma e dal papà, avrebbe aiutato con l’orto, seduta la sera in veranda con una tazza di tisana, ad ascoltare le storie di Maria Teresa.

All’improvviso — un colpo. Un coniglietto di peluche le atterrò ai piedi. Speranza alzò lo sguardo — su una panchina c’erano una donna e un bimbo di quattro anni. Raccattò il giocattolo e disse dolcemente:

“Hai perso il tuo coniglio.”

“Non mi serve, è malato! Morirà presto!” gridò il bambino, arrabbiato e impotente.

“Non badateci,” sospirò la donna. “È malato. Ha un difetto al cuore. I genitori… non lo vogliono. L’ho preso io. È mio nipote. Ma è difficile.”

Speranza la guardò. La donna era elegante, curata. Ma gli occhi… spenti. Vuoti. Come se in loro vivesse l’inverno, nonostante la primavera. Qualcosa in quello sguardo la toccò.

E parlò. Raccontò di essere stata come lui. Che la sua vera mamma l’aveva salvata. Che bisognava crederci. Che con l’amore tutto era possibile. Che avevano vinto — e che anche lei poteva farcela.

La donna rimase in silenzio. Il suo volto impallidiva a ogni parola. Perché davanti a lei c’era una ragazza con il suo viso. I suoi occhi. Quelli blu come fiordalisi. Gli occhi a cui aveva rinunciato tanti anni prima.

Era lei. Sua figlia. Non poteva essere altrimenti.

“Non è possibile…” bisbigliò.

“Invece sì,” rispose Speranza con sicurezza. “Basta crederci. Io credo. E ci creda anche lei.”

Speranza se ne andò. Raggiante. Felice. Viva.

E Angela rimase lì. Come inchiodata. Gli occhi le bruciavano. L’anima si spezzava. Avrebbe voluto gridare, correrle dietro, abbracciarla, inginocchiarsi a chiedere perdono. Ma… ne aveva il diritto?

No. Aveva rinunciato allora. Per paura. Per comodità. E poi la sua vita era crollata. Massimo l’aveva lasciata per un’altra. Suo figlio era cresciuto freddo e distante, e ora lei cresceva un nipote che nemmeno i suoi genitori amavano. Da sola. Senza aiuto. Senza amore. Senza speranza.

Ed ecco la primavera. Ecco la bambina che aveva abbandonato. Estranea, eppure sua. Felice. Salvata da un’altra.

Angela non la seguì.

Perché sapeva: l’amore non è un diritto. Ma un dono. E lei quel dono l’aveva sprezzato.

Ora le rimaneva solo l’ombra. L’ombra di sua figlia. E il rimorso tardivo.

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