Il Ritorno: una storia d’amore più forte del dolore

Il Ritorno di Cocò: una storia d’amore più forte del dolore

Cinque anni fa, in un quartiere dormitorio di Napoli, la mia vita cambiò per sempre. Era una giornata afosa, e mentre ero a casa, sentii un piagnucolio lamentoso fuori dalla finestra. Pensai fosse un gattino. Mi affacciai e rimasi immobile. In una buca, avvolto in un sacchetto di plastica, c’era un cucciolo che gemeva. Lo avevano buttato via come spazzatura.

Corsi fuori con le gambe che tremavano. Mi chinai nella buca e con mani tremanti lo presi. Era piccolo, sporco, impolverato, terrorizzato… Si strinse a me e capii: era mio. Il mio senso. Il mio destino. Sapevo che mio marito sarebbe stato contrario, vivevamo in affitto e a malapena arrivavamo a fine mese. Ma non potevo lasciarlo lì.

Vicino c’era una vecchia 500 del vicino, abbandonata e dimenticata da tutti. Gli chiesi le chiavi e gliela trasformai in una cuccia temporanea. Lo chiamai Cocò. Da quel giorno iniziò una guerra: con i vicini, con mio marito, con me stessa. La gente si lamentava, qualcuno provò a mettere del veleno. Mio marito era furioso: «Hai messo tutto il quartiere contro di noi!». Ma a me non importava. L’importante era che Cocò vivesse.

Cresceva, mi aspettava quando tornavo dal lavoro, giocava, piagnucolava di notte quando chiudevo la macchina. A volte scendevo alle tre di notte solo per farmi vedere, e lui si calmava. Mi afferrava le dita quando gli davo un pezzo di salame. Se rimanevo fuori fino a tardi, non si addormentava mai. Aspettava. Aspettava che lo accarezzassi, che salissi a casa… e solo allora si addormentava vicino alla macchina.

Mio marito brontolava, geloso: «Ami più il cane che me». Ma io ormai non potevo vivere senza Cocò. Una volta che mi ammalai, lui non mangiò per due giorni. Il vicino mi chiamò seccato: «Che malattia hai? Sta sotto la finestra, non si muove, non mangia, aspetta solo te…». Non resistetti: saltai dal letto e, nonostante la febbre, corsi da lui.

Aveva conquistato tutto il quartiere: correva dietro ai bambini, andava dai vicini scodinzolando. Quelli che prima lo odiavano, ora gli davano cibo di nascosto. Era diventato parte della mia vita. Temevo di tardare perché mi aspettava. Riconosceva il rumore della mia macchina, mi correva incontro, mi saltava addosso, mi leccava la faccia. Solo con lui mi sentivo amata e importante.

Aveva paura di mio marito, anche se non lo aveva mai picchiato. Forse sentiva il suo distacco. Di notte, però, come un cavaliere, affrontava da solo i branchi di randagi per proteggere il quartiere. Per il mio compleanno, tutti i parenti portavano avanzi di ossa perché sapevano che Cocò avrebbe cenato prima di tutti. Tutti lo conoscevano. Tutti gli volevano bene.

Poi un giorno… ero al compleanno di un’amica. Ridevo, mi divertivo. E all’improvviso una chiamata. Una voce tremante: «Vai a casa… Cocò…».

Lasciai tutto: torta, ospiti, telefono. Corsi. E quando arrivai, caddi in ginocchio. Cocò era davanti al portone, ferito, sanguinante. Dagli occhi colava sangue, il corpo era un cencio… Urlai, piansi, senza sapere cosa fare. Non c’era un veterinario nel quartiere. Mio marito era sconvolto, i vicini spaesati.

Cocò non rispondeva, solo ogni tanto gemeva. Alcuni uomini lo portarono dietro casa, dove c’era più silenzio. Io rimasi in casa, presi delle pillole, piansi, pregai. La mattina dopo corsi da lui. Ma non c’era più.

I vicini mi dissero: «Di notte i randagi sono tornati. Se n’è andato… Se n’è andato per morire da solo. Non voleva che lo vedessi così…».

Svenni. Mi rianimarono, poi crollai. Febbre, debolezza. Non mangiavo, non parlavo, non uscivo. Gli amici chiamavano, i parenti pure. Qualcuno rise: «Ma dai, è solo un cane!». Ma Cocò non era solo un cane. Era tutto.

Al terzo giorno, mio marito, a sorpresa, insistette: «Prendi le tue cose. Ti porto via». Mi rifiutai, ma lui non demordeva. Pensai mi avrebbe portata in qualche parco per distrarmi.

Arrivammo in campagna. Mi abbracciò e sussurrò: «Non potevo vederti soffrire così. Ti amo…». Provai a sorridere. E all’improvviso… sentii un abbaiare familiare. Mi catapultai fuori. E lo vidi: Cocò! Era su una coperta, debole ma vivo! Non poteva neanche alzarsi. Solo scodinzolò e alzò la testa…

Scoprii che quella notte mio marito era andato a cercarlo. L’aveva trovato mezzo svenuto, lo portò lì. Chiamò un veterinario, gli suturò le ferite, gli fece le iniezioni. Non me lo aveva detto subito, voleva che Cocò si riprendesse un po’.

Piansi, risi, girai dalla gioia. E in quel momento capii: mio marito mi amava davvero. E Cocò era sopravvissuto. Perché l’amore… guarisce. Tutti.

Ora stiamo costruendo una casa. Non ci sono ancora le pareti, né il tetto. Ma la cuccia di Cocò è già lì. E questa è la cosa più importante.

Perché quelli come lui vivono per sempre. Nel cuore.

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