Trentasette e un giorno: quando cresce non il figlio, ma la madre

Trentasette e un giorno: quando a maturare non è la figlia, ma la madre

Mi svegliai prima della sveglia. Fuori, un silenzio grigio e pesante avvolgeva tutto, come se qualcuno avesse gettato un panno bagnato sulla città. L’aria era immobile, gelida, e persino tra le pareti di casa sembrava che il respiro si fosse fermato. Anche io smisi di respirare. Rimasi sdraiata, sentendo che qualcosa era accaduto. Qualcosa era già cambiato, solo che ancora non sapevo cosa.

Presi il telefono quasi senza pensare. 6:04. Una notifica. Ginevra. Aperto.
«Buongiorno, mamma. Sono partita con Luca per Torino. Per favore, non cercarmi. Ti chiamerò.»

Era tutto. Niente “ti voglio bene”, niente “scusa”, neppure una faccina. Come uno scontrino del bancomat. Come la ricevuta che attesta il saldo azzerato – il saldo del mio essere madre.

Lo rilessi. Dieci volte. Non perché non capissi, ma perché speravo di vivere ogni lettura come se potesse riportare indietro il tempo. Il cuore si strinse, come se qualcuno lo stesse schiacciando lentamente dall’interno, con dita avvolte in un panno gelido.

Ginevra. Diciassette anni. L’ultimo anno di liceo. La ragazza che leggeva Ungaretti, preparava crostate di ricotta, odiava le melanzane e portava sempre un elastico nero al polso. Rideva con gli occhi. E il silenzio, con lei, era tiepido, non opprimente. Tutto questo c’era stato. E ora – non più.

Mi avviai in cucina. Rimanemmo lì, io scalza, in una vecchia vestaglia, con il telefono in mano. Non accesi il bollitore. Mi sedetti. Poi mi alzai. Poi mi sedetti di nuovo. Senza pensieri, come se il mio corpo si muovesse per inerzia. Chiamare? Chi? Il suo numero non lo avevo. Solo vaghi ricordi: «Luca, quello di biologia». Facebook: un profilo vuoto con una foto di una volpe. Proprio quella volpe, per qualche ragione, mi sembrava la cosa più spaventosa.

Entrai nella sua stanza. La coperta gettata sul letto, un biglietto sulla scrivania:
«Mamma, non sono cattiva. Solo che non posso più essere la brava ragazza. Ti voglio bene. Ma a modo mio.»

Quel “a modo mio”… un colpo secco. Proprio lì, dove niente avrebbe più cicatrizzato.

Cresciamo i figli come sappiamo. Li proteggiamo – dai raffreddori, dalle cattive compagnie, dai cuori spezzati. Prepariamo i pasti, controlliamo i compiti, compriamo giacche invernali di una taglia più grande. Non ci accorgiamo che un giorno l’importante non è più “che non prenda freddo”, ma solo “che sia viva”. Che torni. Qualsiasi sia. Comunque.

Andai al lavoro. Contabilità. Sul pullman guardavo fuori dal finestrino senza vedere le strade. In ufficio era il compleanno di Sara. Trentasette. Io li avevo compiuti il giorno prima. Senza palloncini, senza auguri, senza candeline. Solo una bottiglia di vino economico e un libro che non avevo mai finito.

Di sera, a casa. Non accesi la luce. Mi sedetti sul davanzale, avvolta in una coperta, osservando le finestre delle altre case. In qualcuna lampeggiava una televisione, in un’altra risuonava il tintinnio di un cucchiaino. Qualcuno aveva una vita. Io – solo un vuoto assordante.

La sera dopo, una telefonata.
«Mamma…»
«Dove sei?»
«Te l’ho scritto. Siamo a Torino. Da la nonna di Luca. Tutto tranquillo, non sono per strada, non preoccuparti.»
«Torna. Ti prego.»
«Non posso, non ora.»
«Non so cosa fare…»

Silenzio. Poi:
«Mamma, ma tu… sei felice?»

Quella domanda mi colpì allo stomaco. Prima non seppi cosa rispondere. Poi sussurrai con sincerità:
«Non lo so. E tu?»
«Voglio provarci. Voglio capire chi sono quando non devo più essere perfetta.»

E ancora silenzio. Poi, il tono di occupato.

Non dormii tutta la notte. Seduta in cucina, scrollai le nostre chat, guardai le foto. Da qualche parte, tra marzo e giugno, qualcosa si era spezzato. E io non me n’ero accorta. Bollette, certificati medici, esami, la ristrutturazione, il divano a rate. Tutto «per lei». Tutto vano.

Una settimana dopo tornò. Senza suppliche, senza lacrime. Semplicemente entrò, si tolse la giacca, posò lo zaino in un angolo e chiese:
«Posso stare qui per un po’?»

Annuii senza parlare. Mi avvicinai. La abbracciai. E per la prima volta, non chiesi nulla.

Restammo in silenzio. Dieci minuti. Poi disse piano:
«Ti voglio bene. E ora capisco: per te è stato difficile. Ma voglio andarmene lo stesso. Non scappare. Solo vivere. A modo mio. Posso?»

«Puoi.»

Un anno dopo. Ginevra affitta una stanza a Genova. Lavora in un bar. Studia design. Viene a trovarmi nei weekend. Mangiamo crostate, discutiamo di film, chiacchieriamo. A volte litighiamo, ma ora – ci ascoltiamo.

Trentasette e un giorno. Da lì è cominciata la sua vita adulta. E la mia. Pure.

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