Il papà temporaneo: il ritorno del calore

**Diario di un uomo – Quando il calore ritorna**

Notai quel ragazzino fra gli scaffali del pane al supermercato. Stava immobile, come se non stesse scegliendo del pane, ma aspettando qualcuno che forse non sarebbe mai tornato. Magrolino, con una giacca logora e una tasca strappata, le scarpe sporche e consumate, un berretto storto e le guance rosse per il freddo. I guantini sembravano giocattoli dimenticati, sgualciti e troppo grandi per lui.

Aveva un’espressione che raramente si vede nei bambini. Non c’era supplica né smarrimento in quello sguardo, solo una quieta attesa interiore. Lo sguardo di un adulto che ha capito troppo presto che non c’è nessuno a cui chiedere aiuto. Diretto, scrutatore, ostinatamente calmo.

Io avevo già preso il mio solito filone e stavo per andarmene, ma poi mi girai di nuovo. Lui era ancora lì, come inchiodato al pavimento, come se credesse che rimanendo fermo, qualcosa sarebbe cambiato.

Quello sguardo mi era dolorosamente familiare. Quindici anni prima, in un orfanotrofio dove facevo lezioni volontarie, c’era un bambino con gli stessi occhi. Non c’erano parole, solo un grido muto: *guardami*.

Pochi minuti dopo lo rividi alla cassa. Era in fila con due caramelle in mano. Niente cestino. La cassiera disse qualcosa sul denaro che mancava. Lui non protestò, rimise silenziosamente una caramella sul bancone e pagò. I suoi gesti erano precisi, frugali, come quelli di un adulto abituato a rinunciare a ciò che non può permettersi.

«Ascolta» dissi, avvicinandomi e cercando di parlare piano. «Posso comprarti qualcosa? Pane, latte, wurstel… Non preoccuparti, non voglio insistere. Solo perché posso. Va bene?»

Mi guardò senza paura, ma con una cautela che a un bambino non dovrebbe appartenere.
«Perché?» chiese semplicemente.

Non era una sfida, né una difesa. Solo una domanda. Senza emozioni. Come per capire se valesse la pena parlare.
«Perché… posso. Perché meriti più di una caramella.»
«Le cose a caso non esistono. La gente non fa niente per niente. Lei è il papà di qualcuno?»
«Lo sono stato. Ho una figlia, ma non viviamo insieme. È con sua madre a Milano. Le scrivo, non dimentico il suo compleanno. Ma so che non basta.»

Lui annuì tra sé, come se avesse già sentito quella storia. O forse la conosceva troppo bene.
«Allora va bene. Comperatemi delle patate. Calde. E un wurstel. Solo uno. Senza senape. È… troppo forte.»

Uscimmo fuori. Il gelo mordeva il naso, la fermata dell’autobus era battuta dal vento. Gli porsi il sacchetto senza farne una questione.
«Dove abiti?»
«Qui vicino. Ma a casa non voglio. La mamma dorme. È stanca. Magari domani dormirà ancora. Meglio stare qui, sulla panchina. È più silenzioso. E la gente non ti fissa.»

Ci sedemmo. Io lo guardai mangiare, lentamente, con dignità, come un adulto a un pranzo di lavoro. Teneva il wurstel con due mani, mordicchiandolo con attenzione. Non ingordo. Dentro di lui c’era più pazienza che in molti uomini cresciuti.
«Mi chiamo Lorenzo. E lei?»
«Francesco.»
«Può fare… cioè, solo per un po’… il papà? Un’ora. Non per davvero. Solo per sembrare normale.»

Mi si strinse la gola. Annuii, lentamente. Onesto.
«Posso.»
«Allora mi dica di mettere il cappello. Che fa freddo e mi prenderanno il raffreddore. E mi chieda com’è andata a scuola.»
«Ehi, Lorenzo, il cappello dov’è? Si congela fuori e tu sei in maglietta. Ti colerà il naso fino ai piedi. E a matematica?»
«Sufficiente. Ma in condotta ho avuto ottimo. Ho aiutato una nonna ad attraversare. Le ho fatto cadere la borsa, però. Poi ho raccolto tutto. Mi ha detto che l’importante è provarci.»
«Giusto. Ma il cappello mettilo. Devi proteggerti. Non ne hai un altro te stesso.»

Lorenzo sorrise. Finì di mangiare, si pulì le mani. Come un adulto che si prepara a una riunione.
«Grazie perché lei non è come gli altri. C’è chi ha pietà, chi dà consigli. Lei invece c’è stato e basta. Questo… è meglio.»
«Se domani sarò qui… verrai?»
«Non so. Forse la mamma si sveglierà. O forse no. Forse verrò. Mi ricorderò di lei. È vero. I suoi occhi non mentono.»

Si alzò. Non disse «arrivederci», solo «a dopo». E se ne andò. Leggero, ma con un silenzio nei passi, come chi sa che nessuno lo rincorrerà.

Io rimasi. Poi mi alzai, buttai il bicchiere vuoto. Continuai a guardare nella direzione in cui era sparito. Dentro di me pesava. Avrei voluto fermarlo. Ma sapevo che non si possono abbattere i muri che un bambino costruisce per sopravvivere.

Il giorno dopo tornai. E quello dopo ancora. Mi sedevo sulla stessa panchina, con un caffè o un giornale, fingendo di riposare. A volte Lorenzo non veniva, e dentro mi si strappava qualcosa. Ma quando appariva, con la stessa giacca e lo stesso sguardo, sentivo rinascermi qualcosa.

Una volta arrivò con due bicchieri di plastica. Avvolti in tovaglioli. Me ne porse uno:
«Oggi lei ha fatto il papà. Adesso faccio io il figlio. Le sta bene?»

Non risposi. Presi il tè. E sorrisi. Senza parole. Perché a volte… basta esserci. Senza condizioni. Senza promesse. Basta esserci.

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