Lo aveva trovato in lui – dopo dieci anni
L’avevamo aspettata questa riunione, sembrava un’eternità. Erano passati esattamente dieci anni dall’ultima campanella nella nostra piccola scuola di provincia vicino a Brescia, ed eccoci qua – quasi tutta la nostra vecchia 3ª B riunita di nuovo nell’aula che conoscevamo a memoria. Tutti, tranne Enzo, sempre in giro per lavoro, e Luisa, a casa con il neonato.
Poi la porta si aprì – ed entrò lei.
Federica.
Quella. Quella per cui metà della classe una volta aveva il fiato corto. Quella il cui sorriso nel corridoio faceva mancare la terra sotto i piedi. Ed eccola di nuovo tra noi. Solo che adesso portava un anello all’anulare e aveva lo stesso dolce sorriso, come se il tempo non l’avesse mai sfiorata.
«Gianni, non sei cambiato per niente!» disse dall’altra parte del tavolo.
Volevo risponderle qualcosa di spiritoso, ma mi si seccò la gola. Tutto come allora. Solo che ora non avevo più diciassette anni.
In terza superiore noi ragazzi ci comportavamo da idioti. Sei grandicelli innamorati persi della stessa ragazza. Di Federica. Secchiona, bellissima, la migliore della classe. E soprattutto – con una luce dentro. Era amica di tutti, non flirtava con nessuno, non faceva preferenze. E questo ci faceva impazzire ancora di più.
«Ma perché le correte dietro come cagnolini affamati?» sibilava Elena Rossi, la ragazza del banco accanto.
«Ti rode, eh?» ringhiava Antonio.
Non avevo notato allora che le sue mani si stringevano. Non avevo capito che i suoi occhi luccicavano non per rabbia – ma per le lacrime.
Federica intanto passava sempre più tempo dopo scuola con Vittorio Bianchi. Timido, modesto, quasi invisibile. Uno di quelli che definisci “uno zero”. Solo che lui le portava lo zaino. Andava con lei in biblioteca. E sapeva ascoltare.
«Ma cosa ci trova in lui?» sbuffavo. «È una pianta!»
«Però ha più pazienza di tutti noi messi insieme» sogghignava Antonio.
Le ragazze invidiavano Federica da morire. Soprattutto Elena. Noi non lo vedevamo – eravamo troppo accecati. Poi successe quello che ci distrusse definitivamente.
Era un giorno come un altro. Prima dell’intervallo. Federica entrò in classe, si sedette – e subito balzò in piedi con un urlo. La sua schiena e il vestito erano zuppi di gelatina di fragola densa. Quel giorno l’avevano servita in mensa. La macchia era rivoltante. Federica, rossa di vergogna, scappò dall’aula. E noi – iniziammo ad urlarci addosso. Accuse volavano come pietre: «L’hai fatto per gelosia!», «È stato apposta!», «Sicuro è stata lei – la Rossi!» Ero certo che l’avesse fatto Elena. Non glielo perdonai.
Da quel giorno la nostra classe “unita” andò in pezzi. Risentimenti, sospetti che ci divoravano dentro. Alla festa di maturità non andammo. Non facemmo nemmeno una foto insieme. Solo i diplomi – e ognuno per conto suo. La professoressa pianse in silenzio in sala insegnanti. Noi restammo muti.
E oggi…
Oggi Federica è seduta di fronte a me. Lo stesso sorriso, solo più pacato, maturo. Scoprimmo che era stata lei a ritrovarci tutti – sui social. Aveva creato un gruppo. Riunito la nostra classe dispersa nel virtuale, e poi – di persona. E all’improvviso ci ricordammo che un tempo eravamo stati vicini. Che eravamo parte di qualcosa di più grande. Eravamo di nuovo in quell’aula e ridevamo. Come se il tempo si fosse ripiegato su sé stesso.
Poi Federica chiamò qualcuno dal corridoio. E in classe entrò un ragazzo alto. Un volto dolorosamente familiare. Era suo fratello minore – Alessandro, che ricordavamo mingherlino, col naso perennemente gocciolante.
«Dai, diglielo! Lo avevi promesso!» lo spinse Federica.
Alessandro esitò. Poi confessò:
«Sono stato io a rovesciare la gelatina quel giorno. Federica mi aveva fatto riscrivere i compiti due volte, e io… beh… mi sono vendicato.»
Un silenzio pesante cadde sulla stanza. Avevamo perso la nostra festa di maturità – per colpa di un ragazzino e un paio di cucchiaiate di gelatina. Avevamo voglia di ridere e piangere insieme.
Più tardi tutti condividevano le loro vite: chi faceva cosa, chi aveva figli. Io tacqui. La mia vita non meritava racconti. Ma Federica all’improvviso si alzò e mise un braccio sulle spalle di Vittorio. Proprio lui. Il timido. L’invisibile.
«Siamo sposati da cinque anni» disse semplicemente, come se commentasse il meteo.
Serrai i denti. Non per rabbia. Per il dolore. Perché anche dopo tutti quegli anni, non ero riuscito a lasciare andare quel sogno di scuola.
Più tardi, quando il trambusto si calmò, mi avvicinai a Vittorio:
«Come hai fatto?»
Mi guardò con un sorriso.
«Ti ricordi quando si ruppe la gamba dopo la scuola? Sciando.»
Annuii. Me lo ricordavo benissimo. Ero andato anche io una volta – con dei cioccolatini. Ero rimasto davanti alla porta, poi me ne ero andato.
«Io ci andavo ogni giorno. Pulivo, cucinavo, l’aiutavo. Le leggevo. Poi restavo seduto accanto a lei. Una volta scoppiò a piangere. Disse che aveva paura di non camminare mai più. Le promisi che se non ci fosse riuscita, l’avrei portata in braccio. Per tutta la vita.»
Annuii, vuotai il bicchiere:
«Te la sei meritata. Non hai solo aspettato – sei stato presente.»
«L’ho solo amata. Senza condizioni. Senza calcoli. Senza aspettarmi nulla.»
Mentre stavo per andare via, Elena Rossi mi raggiunse.
«Gianni, aspetta! Un brindisi?»
Mi voltai. Mi tendeva un bicchierino:
«Allora, capitano? Hai perso?»
Guardai la sala: Alessandro russava con una bottiglia vuota tra le braccia, Vittorio sistemava i capelli a Federica, e Elena – bellissima, cresciuta – mi guardava come se fossi il sogno che aveva atteso troppo a lungo.
«No» dissi, facendo tintinnare il bicchiere. «Non ero abbastanza degno.»
«Ho aspettato dieci anni per queste parole» rispose piano. «Ora puoi essere libero. Ragazzo della mia gioventù.»
E improvviso capii quanto ero stato cieco. Quante volte non l’avevo accompagnata a casa. Quante volte non avevo visto che lei c’era sempre stata, accanto a me.
«Forse… facciamo due passi?» proposi piano, accennando alla porta.
Si bloccò. Poi infilò il cappotto:
«Niente sciocchezze, però, Gianni. Non sono più la ragazzina stupida di una volta.»
«Non serve. Vorrei solo… riscoprirti.»
E uscimmo. Nella quiete della sera bresciana, dove forse, dopo dieci anni, tutto stava finalmente ricominciando.