«Promesse Vuote o Cena? La Caduta Inesorabile»

Leonardo si agitava nella piccola cucina come una tigre in gabbia. Si strofinava le mani, sistemava i piatti, spostava la zuccheriera, cercando un appiglio in quella quotidianità che odiava. Nella mente, un monologo infuriava. Doveva parlare. Mettere fine a tutto. Basta. Non ce la faceva più.

Alessia, ovviamente, avrebbe pianto. Lo avrebbe supplicato di restare. Avrebbe detto di essere stanca, di aver fatto del suo meglio. Avrebbe promesso che tutto si poteva aggiustare. Ma lui sapeva la verità: era finita. Non c’erano più loro. Solo due coinquilini legati da un mutuo e un frigorifero. Senza amore, senza rispetto, senza nemmeno la rabbia. Il vuoto.

Sentì la chiave girare nella serratura. Si preparò, come prima di un tuffo nel vuoto.

Alessia entrò in casa, appoggiandosi al tavolino dell’ingresso. Prima cosa: si tolse le scarpe. Quelle maledette scarpe nuove. La giornata era stata infernale—lavorare come commessa in un negozio d’abbigliamento al centro commerciale l’aveva trasformata in una macchina instancabile: prendi, porta, prova, aiuta. La primavera risvegliava nelle persone la voglia di cambiamento: chi cercava amore, chi un vestito nuovo.

«Ciao. Sei stanca?» chiese Leonardo, con cautela.

«Come un cane. Non mi sono seduta un attimo» sospirò lei, senza guardarlo.

«Capisco. Cena presto?»

Alessia annuì e andò in cucina. Vent’anni dopo, i fornelli ribollivano, le padelle sfrigolavano, e l’aria era impregnata di profumi in cui Leonardo cercava ancora un senso alla vita.

Si avvicinò alla porta, facendosi coraggio. Inspirò profondamente.

«Alessia…» iniziò, «dobbiamo parlare.»

La moglie si voltò verso di lui, continuando a sbucciare una carota. Senza sorpresa, senza ansia.

«Separiamoci.» La frase gli uscì di bocca come un colpo. «Non ce la faccio più. Siamo estranei. Tu hai ucciso la mia ispirazione. Io sono un artista, tu sei la routine. Mi chiedi soldi, non mi lasci crescere, mi tagli le ali. Non voglio più questa vita.»

Era un improvvisazione, ma gli sembrava abbastanza teatrale. Quasi come a un provino.

Alessia continuò a raschiare la carota, poi all’improvviso la scagliò nel lavandino, si tolse il grembiule, spense il fornello e lo fissò.

«D’accordo» disse, calma. «Chiudiamola qui, con questa vita.»

Lui rimase di sasso. Non era previsto nel copione. Dov’erano le lacrime? Le urla?

Mentre lui elaborava la sua reazione, Alessia si preparò un caffè, prese formaggio e biscotti, si sedette a tavola.

«Ale… sei sotto shock. È normale. Ma anche tu lo sentivi, vero? Cucini senza passione. È tutto meccanico…»

«Sì, senza passione» ripeté lei, bevendo un sorso di caffè.

Il discorso si sgretolava. Lui perdeva le battute.

«Dobbiamo decidere cosa fare con la casa» iniziò goffamente. «E con il resto…»

«Pensavo fossi così soffocato dalla routine che saresti scappato senza voltarti. Invece eccoti qui—preoccupato per il mutuo» lo canzonò. «Va bene. Lascia a me l’appartamento. Ma allora ridammi metà di quello che abbiamo pagato. Andrò da mio padre. È anziano, mi chiama da tempo.»

«Sei sempre così calcolatrice» sospirò Leonardo. Lui aveva pensato fosse più semplice. Sognava una carriera nel cinema, andava ai provini mentre lavorava come guardia giurata. Tutti i suoi soldi li dava a lei, senza sforzarsi di capire. E ora—soldi, rate, documenti.

Voleva la libertà. E invece aveva ottenuto un conto da saldare.

«Alessia, tieni tutto. Mi ridarai i soldi quando potrai. Non sono un mostro» aggiunse con un tono da benefatore, come se le avesse regalato un’intera tenuta invece che un monolocale.

«Grazie. A proposito, c’è qualcun altro per te?» chiese con un distacco evidente.

«Non importa» borbottò lui, lasciando intendere che fosse un uomo di successo.

Se ne andò con un’ombra di vittoria. La libertà. Una vita artistica, lontana dai fornelli e dai rimproveri.

Passarono sei mesi.

Leonardo era di nuovo davanti a quella porta, scomodo. Tutto era cambiato. Vivere con sua madre era diventato un incubo. Lo rimproverava per il divorzio, lo tormentava per la carriera fallita, lo cacciava via con qualsiasi scusa, faceva scenate se portava a casa una donna. Persino una cameriera era scappata, incapace di sopportare la sua bocca velenosa.

Sua madre era peggio di Alessia. Molto peggio.

E infine, la richiesta di andarsene. Era sicuro che avesse un nuovo uomo. Litigarono. Lo chiamò perdente e gli ordinò di trovarsi un lavoro, invece di sognare il cinema.

E in quel momento, Alessia chiamò. Propose di chiudere la questione della casa e finalmente firmare i documenti del divorzio. Ed eccolo lì.

Si preparò: aveva provato lo sguardo tormentato, le parole contrite, perfino la lacrima trattenuta.

Premette il campanello.

«Ciao. Entra» disse Alessia, aprendo. Sembrava… stupenda. O forse era solo la nostalgia.

Entrò in cucina come se fosse ancora casa sua. E si bloccò.

Davanti ai fornelli c’era un uomo mezzo nudo in pantaloncini da ginnastica, che friggeva carne. La padella sfrigolava, sul tavolo una pila di banconote.

«Tu chi sei?» chiese Leonardo, con la voce strozzata.

«Marco» rispose l’uomo, senza nemmeno voltarsi.

«Ale… possiamo parlare?» riuscì a dire lui, con un filo di voce.

Nella stanza, bisbigliò furioso:

«Chi è quello? Cosa ci fa qui?»

«Sta preparando la cena» rispose lei, impassibile.

«E io?»

«Tu te ne sei andato.»

Silenzio. Pesante, come una condanna.

«E se… tornassi?»

«Dove? Il posto è occupato. A Marco non dà fastidio la mia “praticità”. A lui interessano la famiglia, i figli, la casa al mare. Ci sposeremo non appena il divorzio sarà ufficiale.»

«E tu?»

«Anch’io.»

«E io?» urlò lui. «Cosa ha che io non ho?»

«Lui mi ha nutrito con la cena. Tu solo con promesse.»

Fine.

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