Sposa non di suo gusto: come una madre ha distrutto la felicità di suo figlio
Vittoria si aggiustò nervosamente il colletto della camicia e si guardò intorno. Era davanti a un vecchio palazzo di cinque piani nel centro di Palermo. Tra le mani reggeva un mazzo di fiori per la futura suocera e una scatola di pasticcini fatti in casa. Quel giorno avrebbe conosciuto la madre del suo fidanzato, Matteo. Un giorno da cui dipendeva molto. E, come avrebbe scoperto dopo, non si era preoccupata invano…
Elisabetta Romano, la madre di Matteo, li accolse con fredda educazione. L’appartamento era spazioso, curato, con un’aria severamente antiquata. Sulla tavola, insalate, salumi, conserve casalinghe. Si era preparata. Ma lo sguardo di Vittoria non la ingannava: ghiaccio, diffidenza, un disprezzo calcolato.
«Allora, Vittoria, che lavoro fai? Dove vivono i tuoi genitori? Hai una casa? E i soldi, i progetti?» Le domande si susseguivano, una dopo l’altra. Vittoria rispondeva con calma, misurando le parole.
Ma la tensione saliva. Quando un silenzio imbarazzante riempì la stanza, Elisabetta improvvisamente disse:
«Matteo, vieni in cucina ad aiutarmi con gli involtini.»
«Certo, mamma,» rispose lui, obbediente.
Uscirono, ma Vittoria sentì chiaramente la voce di Elisabetta dalla cucina. Prima sussurrata, poi sempre più alta.
«Ma sei impazzito? Una così squattrinata, arrogante. L’ho vista in pasticceria a pulire i pavimenti! È questa la moglie che ti meriti? Tu, bello, con la tua azienda, e lei ti trascina via! In periferia! Che ci fa con te? Hai un appartamento, la macchina, lo status! E lei cos’ha?»
Il cuore di Vittoria batteva a martello. Le mani le si ghiacciarono. Si alzò, senza una parola, senza rumore, indossò il giubbotto e uscì. Niente scene, niente lacrime. Solo freddo nel petto e un sommesso «tutto chiaro.»
Con Matteo si erano conosciuti in pasticceria. Lui passava spesso a comprare dolci per sé e per sua madre. Un giorno, dietro al bancone c’era Vittoria. Tra loro era scoccato qualcosa — uno sguardo, un sorriso, qualche parola.
«Alla mamma piace la cannella, a me il miele, e una scatola di bignè. E tu… stasera hai voglia di fare una passeggiata?»
«Stasera no, ho il turno fino a tardi. Un’altra volta, forse.»
Dopo sei mesi, lui le aveva chiesto di sposarlo. Era proprietario di una piccola catena di pasticcerie — un’attività ereditata dalla madre. Lei l’aveva iniziata, lui l’aveva fatta crescere. Lavorava senza aria di superiorità — poteva lavare i pavimenti o stare alla cassa.
«Da me è tutto semplice,» diceva Vittoria. «Mia madre, mia nonna, mia sorella. L’appartamento è grande, lo ha preso mamma da mio nonno. Viviamo lì.»
«Io vivo con mia madre. Abbiamo un trilocale. Penso che tu possa trasferirti da noi.»
«No. Non lascerò mia nonna. Possiamo comprare qualcosa insieme, ma da te non verrò.»
«Ma è un paesino!»
«È una casa moderna in periferia. Non confondere.»
Dopo la visita spiacevole, Vittoria evitava di parlare del matrimonio. Matteo la implorava:
«Mamma è solo preoccupata. Ma ti ha accettata. Ha fatto delle indagini, ha controllato tutto. Vuole venire con noi a conoscere tua nonna.»
«Indagini? Accettata?! No, mia nonna verrà al bar. E lì si conosceranno. Senza giudicare la mia casa.»
Il matrimonio si fece comunque. Matteo si trasferì da Vittoria. Per un anno intero vissero tranquilli, quasi felici. Poi iniziarono le visite della suocera.
«Che bello qui. Sarei tentata di restare per sempre,» insinuava, osservando la casa.
Poi il colpo. Matteo perse il lavoro, e poco dopo Vittoria scoprì una verità terribile — ancora prima del matrimonio, lui aveva preso un grosso prestito… per comprare un appartamento a sua sorella. A pagare doveva essere lui. Tutto era rimasto segreto, finché la banca non iniziò a chiamare all’indirizzo di residenza.
Elisabetta irruppe in casa come un uragano.
«Che hai combinato, Vittoria?! Mio figlio ti ha dato tutto, e ora è sommerso dai debiti! Tu l’hai portato via, lo hai spogliato, e ora è nelle mani degli strozzini!»
«Ma che sta dicendo? Vive qui gratis, non paga le bollette, mangia a mie spese, usa le mie cose. Che debiti?!»
«Lavora per te, e i soldi spariscono! Dov’è il suo stipendio?»
«Matteo, spiega. Di cosa stiamo parlando?»
«Taci, Matteo!» urlò Elisabetta.
«Basta! Matteo, parla. Cosa sono questi debiti?»
«Ho preso un prestito… sei mesi prima del matrimonio. Per mia sorella. Si è separata, ha i bambini… Mamma mi ha chiesto di aiutarla.»
«E quando pensavi di dirmelo?»
«Non lo so…»
«E adesso?»
«Paghi. Siete una famiglia, no? Allora pagate insieme,» dichiarò Elisabetta.
«No. Non siamo più una famiglia. Da questo momento, no. Andatevene. Andatevene entrambi.»
«Sei seria?!» Matteo rimase lì, sgomento.
«Molto. Lascia le chiavi.»
Se ne andò. Senza scene, senza abbracci. Semplicemente uscì con una valigia. Vittoria, senza versare una lacrima, gli chiuse la porta alle spalle. Chiese il divorzio. Non c’era nulla da dividere.
Lui tornò a vivere con sua madre, sua sorella e i suoi nipoti. Trovò un altro lavoro. Paga il prestito. Vive… sopravvive.
E Vittoria? Vittoria ha ampliato la pasticceria. È diventata più forte. E sa una cosa con certezza: l’amore non è sacrificio né cieca fiducia. È onestà, rispetto e scelta. La scelta di non salvare, ma di salvaguardare se stessi.