Rimasto per sempre il bambino di mamma, anche da adulto

Michele è rimasto il bambino di mamma — anche da adulto.

Quando finalmente ho deciso di sposarmi, avevo già superato i trentacinque anni. Non avevo fretta, non volevo buttarmi tra le braccia del primo venuto. Desideravo un sentimento vero, profondo e consapevole, come nei bei film: reciprocità, calore, complicità. E, a dirla tutta, vivevo bene anche da sola.

Avevo un lavoro prestigioso, un buon stipendio, e alle spalle decine di paesi che avevo visitato grazie ai viaggi di lavoro. Ogni weekend lo passavo con le amiche — in discoteca, in gita, in viaggi improvvisati. Tutto sembrava perfetto. Poi, però, hanno iniziato a lamentarsi i parenti: «Quando ti decidi a sposarti?», «E i nipotini?», «Tra poco sarà troppo tardi…».

E come per dispetto, anche le amiche, una dopo l’altra, si sono sistemate. Qualche anno prima sognavamo tutte libertà e indipendenza, e ora eccole lì a fare purè e lavare pannolini. E io sono rimasta sola.

Al lavoro c’era Michele, un collega che da tempo mi mostrava interesse. Educato, galante, di bell’aspetto, poco più grande di me. Però non si era mai sposato. E proprio questo mi insospettiva. Un uomo vicino ai quaranta, sempre single — non è strano?

Ma lui giurava di non aver evitato il matrimonio. Anzi, sognava da tempo una famiglia, dei figli, una casa accogliente. Diceva solo di non aver ancora incontrato «la donna giusta».

Quando un’altra volta mi ha invitata al bar, ho pensato: perché no? Ci piacevamo, la conversazione era piacevole, sembrava affidabile. Così ho detto di sì. E dopo qualche mese ci siamo sposati.

Il matrimonio è stato semplice ma sentito. Ed è stato proprio dopo le nozze che ho capito perché nessuna, prima di me, era riuscita a «mettere le mani» su Michele.

La risposta? Sua madre.

O meglio, il suo attaccamento morboso a lei. Quell’uomo adulto, apparentemente maturo, in realtà era il classico mammone.

All’inizio abbiamo vissuto nel suo appartamento in centro a Milano. Lei, banalmente, non ci lasciava respirare. Senza la sua opinione non si decideva nulla: dal colore delle lenzuola a cosa cucinare per colazione. Ogni passo era controllato. E Michele? Lui annuiva. Lui obbediva. Aveva paura di offenderla perfino con una parola.

Quando ho provato a discutere di trovare una casa nostra, esitava, taceva, cambiava argomento. Solo dopo averlo supplicato a lungo, abbiamo fatto un mutuo e ci siamo trasferiti in un nuovo appartamento luminoso.

Ma, purtroppo, la distanza fisica non significava libertà.

Michele continuava a vivere seguendo gli ordini di sua madre. Il weekend? Pranzo da lei. Ogni sua scelta era preceduta da una chiamata: «Mamma, cosa ne pensi?» Comprava le lampadine solo se lei diceva che erano buone. Mi portava i fiori solo quando lei gli ricordava che una moglie va coccolata.

All’inizio chiudevo un occhio. Soprattutto quando i nostri figli erano piccoli e io ero a casa. Capivo: Michele lavorava sodo, portava a casa lo stipendio, e sua madre era un punto di riferimento per lui.

Ma il tempo passava. Sono tornata a lavorare, alla mia routine, ai miei progetti. E sentivo sempre di più il peso di stare accanto a un uomo incapace di prendere decisioni da solo.

Ero stanca, non tanto per il lavoro, ma per quella dipendenza continua: «mamma ha detto», «mamma consiglia», «mamma pensa che…». Sua madre era diventata l’intrusa nel nostro matrimonio.

Ero di nuovo indipendente economicamente. Potevo mantenere me stessa e i miei figli. E sempre di più mi rendevo conto che Michele non era un marito — era un altro bambino. Solo che non era un dolce bebè, ma un adulto caparbio e infantile, attaccato alla gonna di sua madre.

Adesso sono a un bivio. Continuare per i bambini, fingendo che vada tutto bene? O salvare me stessa, la mia pace interiore, e andarmene?

Ragazze, chi è stata in questa situazione — ditemi. Cosa avete scelto? Vale la pena lottare per un matrimonio in cui uno dei due ha già dato il cuore a un’altra donna — anche se è sua madre?

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