La terza stanza non è per gli ospiti

Terza stanza – non per gli ospiti

“Non osare entrare lì!” gridò Valentina, uscendo dalla cucina con le mani ancora bagnate. “Quante volte te l’ho detto?”

Diego, dieci anni, si bloccò sulla soglia socchiusa, voltandosi verso la nonna. Nei suoi occhi c’era un misto di confusione e di rammarico.

“Nonna, ma cos’è che c’è lì dentro? Volevo solo dare un’occhiata…”

“Non c’è niente! Solo polvere!” Valentina si avvicinò con decisione, sbatté la porta e girò la chiave. “Meglio che vai a guardare i cartoni o a giocare con i tuoi Lego.”

Diego alzò le spalle e si trascinò in salotto, ma Valentina lo vide lanciare un’occhiata furtiva a quella porta misteriosa. Respirò a fondo, infilando la chiave nella tasca del grembiule. Ancora quella storia. Ogni volta che il nipote veniva in vacanza da lei, era sempre la stessa cosa.

“Mamma, perché lo spaventi così?” chiese Francesca, uscendo dal bagno mentre si asciugava i capelli. “È solo un bambino, è curioso.”

“E tu non lo sei?” ribatté Valentina, con un tono secco.

Francesca si immobilizzò, l’asciugamano sospeso tra le mani.

“Io… io sto bene così, mamma. A cosa serve rivangare il passato?”

“Esatto. E Diego non ha bisogno di sapere. Meglio che giochi all’aria aperta invece di ficcare il naso dove non deve.”

Francesca aprì la bocca per replicare, ma poi tacque. Conosceva quel tono della madre, sapeva che discutere era inutile. Meglio distrarre il bambino con altro.

Valentina tornò in cucina, accese il bollitore. Le mani le tremavano mentre prendeva le tazze dalla credenza. Venti anni erano passati, eppure il cuore le si stringeva ancora solo al pensiero di quella stanza. Di ciò che conteneva.

Dopo pranzo, Diego si sdraiò sul divano con il tablet, mentre Francesca leggeva un libro in poltrona. Valentina lavava i piatti, ma teneva d’occhio il nipote. Quel ragazzino era intelligente, osservatore. Troppo osservatore.

“Nonna,” chiese all’improvviso, senza staccare gli occhi dallo schermo, “perché avete un trilocale se vivete solo in due stanze?”

Valentina lasciò cadere un piatto nel lavandino, che tintinnò contro il bordo.

“Come fai a sapere che è un trilocale?” chiese, prudente.

“Mica sono cieco! So contare le porte. Quella è la tua camera, quella il soggiorno dove dormo io, e poi c’è quella porta lì. Sempre chiusa.”

Francesca alzò gli occhi dal libro, fissando la madre. Valentina le voltava le spalle, le spalle tese.

“Lì… ci sono vecchie cose,” sussurrò. “Niente che possa interessarti.”

“Posso vederle? Starò attento, non romperò niente.”

“No!” si girò di scatto. “E non chiederlo più!”

Diego trasalì a quel tono, e persino Francesca sollevò le sopracciglia, sorpresa.

“Mamma, ma che ti prende?” si alzò. “Non hai mai urlato così con Diego.”

Valentina si appoggiò al lavandino, passandosi una mano sul viso.

“Scusami, piccolo. È solo che… sono molto stanca oggi. Non arrabbiarti con la nonna.”

Diego annuì, ma la confusione nei suoi occhi non svanì. Un bambino intelligente. Troppo intelligente.

Quella sera, dopo che Diego si fu addormentato, Francesca raggiunse la madre in cucina.

“Mamma, forse è davvero il momento?”

“Il momento di cosa?”

“Di… svuotare quella stanza. Sono passati vent’anni. Papà non c’è più da tempo, e tu invece…”

“Non osare!” Valentina balzò in piedi così bruscamente che la sedia cadde all’indietro. “Non osare entrare lì!”

“Mamma, calmati, ti prego. Penso solo che non sia sano vivere così. Ti fai del male da sola.”

Valentina raccolse la sedia, si risedette. Le mani di nuovo tremavano.

“Non mi faccio del male. È solo che… è più tranquillo così. Sapere che tutto è al suo posto. Che niente è stato toccato.”

“Ma Diego cresce, presto avrà bisogno di una stanza sua quando viene a trovarti. E allora? Lo farai dormire sul divano per sempre?”

“C’è tempo. È ancora piccolo.”

Francesca sospirò. Lei ricordava quella stanza. Ricordava com’era vent’anni prima, l’ultima volta che ci era entrata. La scrivania sotto la finestra, gli scaffali pieni di libri, il letto singolo contro il muro. E ovunque, tracce di una vita interrotta troppo presto.

“Ricordi quanto si arrabbiava con te?” disse improvvisamente Francesca a voce bassa. “Quando gli riordinavi la camera? Urlava che aveva un suo ordine, che non dovevi toccare nulla.”

Valentina sorrise tra le lacrime.

“Lo ricordo. Così indipendente. Faceva tutto da solo, non lasciava che nessuno lo aiutasse. Neanche i piatti sporchi li portava via, lo faceva lui. Diceva che un uomo deve pulire da sé.”

“Aveva solo diciassette anni, mamma.”

“Sì, solo diciassette… eppure sembrava già così adulto. Sapeva tutto, capiva tutto. Ti ricordi quando discuteva di politica con tuo padre? Poteva parlare per ore, citava numeri, fatti…”

Francesca annuì. Ricordava suo fratello minore, il suo riso, la sua cocciutaggine, i suoi sogni. Ricordava come si preparasse per l’università, i progetti che faceva per il futuro.

“A volte sogno che sia solo partito per un viaggio,” sussurrò Valentina. “Che domani torni a casa, apra la sua stanza e dica: ‘Mamma, perché hai chiuso a chiave? Ho dimenticato le mie cose qui dentro’.”

“Mamma…”

“Lo so, lo so che sono sciocchezze. Ma è più facile pensare che sia solo in un lungo viaggio. E quando tornerà, tutto sarà come prima.”

Francesca le prese la mano.

“Non tornerà, mamma. E quella stanza non può riportarcelo.”

“E allora cosa può farlo?” Valentina singhiozzò. “Cosa può aiutarmi a dimenticare come stava in ospedale? Come i dottori scuotevano la testa? Come pregavo Dio, promettendogli qualsiasi cosa, pur di salvare mio figlio?”

Francesca tacque. Cosa poteva dire? Un incidente stupido, assurdo. Andrea attraversava la strada, l’automobilista non l’aveva visto al buio. Il ragazzo era rimasto in ospedale tre giorni, senza mai riprendere conoscenza.

“Ricordi,” disse Valentina improvvisamente, “quando mi insegnava a fare i tortellini? Diceva che non chiudevo bene gli orli, che si sarebbero aperti. Stava lì, serio serio, con le mani infarinate fino ai gomiti.”

“Lo ricordo. E poi si dimenticava sempre di spegnere la luce in camera. Tu lo sgridavi, e lui diceva che sarebbe tornato più tardi.”

“Sì, diceva… E io ci credevo. Pensavo che avremmo avuto tutto il tempo del mondo. Che sarebbe cresciuto, si sarebbe sposato, avrebbe avuto dei figli. E io sarei diventata nonna, avrei viziato i miei nipoti…”

Rimasero in silenzio, ognuna con i suoi pensieri. Fuori era ormai buio, in cucina c’era solo la luce fioca della lampada.

“Diego gli somiglia moltoCon il tempo, quella stanza smise di essere un segreto e diventò un luogo in cui la memoria di Andrea continuava a vivere, attraverso le risate di Diego e i racconti di Valentina, trovando finalmente pace.

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