**Un’operazione fallita**
Luca non uscì dall’auto, ci cadde fuori. Aveva svolto solo tre interventi di routine, eppure si sentiva come se avesse trascinato sacchi per tutto il turno. La schiena gli doleva, la testa gli ronzava, e gli occhi gli bruciavano come brace.
A casa, crollò sul divano senza nemmeno togliersi la giacca, chiuse gli occhi e sprofondò nel sonno. Si svegliò al suono insistente di una suoneria allegra che sembrava trapelargli nel cervello. Il collo gli faceva male per la posizione scomoda, e non aveva la forza di alzarsi. “Dannazione. Credo di essermi ammalato,” pensò Luca, riuscendo a stento a sollevare le palpebre.
Il telefono smise di squillare per qualche secondo, per poi riprendere con quella melodia fastidiosa. “Avrei dovuto cambiarla da un pezzo.” Con riluttanza, estrasse il cellulare dalla tasca.
“Pronto,” rispose con voce roca dal sonno. Si schiarì la gola. “Pronto,” ripeté, più fermo.
“Luca, sono all’aeroporto. L’aereo parte tra un’ora. Mio padre è in ospedale per un infarto. Fammi un favore, coprimi, eh? Non c’è nessun altro a cui chiedere,” sentì la voce del collega e amico, Enrico Moretti.
“Non mi sento molto bene… Sono malato. Chiama Matteo.”
“Dai, su. Bevi un caffè, prendi qualcosa per l’influenza. Matteo ha la moglie, lo sai, un turno extra sarebbe come un tradimento. E poi, Andrea è ancora inesperto. Il vecchio Rossi non regge due turni di fila, non è più giovane. Sarò di ritorno dopodomani. Mi dai una mano? Ti ripagherò con la stessa moneta.”
“Insomma, muori pure, ma l’amico devi aiutare. Che tempismo,” pensò Luca.
“Sì,” rispose con un sospiro rassegnato.
“Cosa hai detto?” chiese Enrico.
“D’accordo, dico. Coprirò il turno. Buon viaggio.”
“Sei un vero amico! Ti…” Enrico cominciò a parlare velocemente, ma Luca non lo ascoltò più e chiuse la telefonata.
Mancava ancora un po’ all’inizio del turno notturno. Luca si fece una doccia, si rasò, bevve un caffè forte. Si sentì leggermente meglio. Non aveva voglia di tornare in ospedale, da cui era uscito solo poche ore prima. “Ce la farò. Forse non succederà niente,” pensò mentre si vestiva.
Per qualche ora, il reparto fu tranquillo. Lo assalì una sonnolenza insopportabile, la testa pesante ciondolava verso il tavolo. Luca la scosse, cercando di liberarsi dalla nebbia del sonno. Un altro caffè forte gli diede un po’ di sollievo, ma solo per poco.
“Dottor Bianchi,” sentì una voce lontana. Qualcuno lo scuoteva per la spalla.
Si era addormentato. Alzò la testa dal tavolo. Davanti a lui c’era l’infermiera Laura.
“Dottor Bianchi, hanno portato un ragazzino…”
“Sì, scendo subito,” disse, scrollandosi di dosso gli ultimi brandelli di sonno.
Si schizzò il viso con acqua fredda, mentre il bollitore scaldava. Mise due cucchiaini di caffè nella tazza, ci pensò su e ne aggiunse un altro. Lo bevve bollente, si sistemò il cappellino in testa e scese al pronto soccorso.
Un ragazzino di circa dodici anni giaceva raggomitolato sul lettino. Luca lo esaminò con cautela.
“Lei è la madre?” chiese a una donna esile e pallida.
“Cosa ha, dottore?” Gli occhi grandi della donna si spalancarono di paura.
“Perché non ha chiamato prima un’ambulanza?” domandò bruscamente, con tono accusatorio.
“Io… sono appena tornata dal lavoro, mio figlio faceva i compiti. Poi ha vomitato e la febbre è salita. Nascondeva da giorni che gli faceva male la pancia. Cosa ha?” afferrò Luca per il braccio, disperata.
“Laura, una barella!” gridò, senza staccare gli occhi dal volto pallido della donna. Si liberò dalla sua presa. “Firmi il consenso per l’operazione.” Prese un foglio dalla scrivania e glielo porse.
“Un’operazione? Ha l’appendicite?” chiese la donna.
“Peritonite.” Luca la guardò con compassione.
Nei suoi occhi si fissò l’orrore.
“Firmi. Non c’è tempo da perdere,” ripeté.
Lei firmò senza leggere e gli afferrò di nuovo il braccio.
“Dottore, salvi mio figlio!”
“Farò tutto il possibile. Non mi intralci.”
Laura aveva già portato la barella. Insieme vi adagiarono il ragazzo e lo portarono verso l’ascensore. Nel corridoio vuoto, i loro passi frettolosi e lo scricchiolio delle ruote malconce della barella risuonavano lugubri.
La donna non desisteva, parlava, ma Luca non l’ascoltava. Pensava all’intervento.
Quando entrò in sala operatoria, il ragazzo era già sul tavolo, sotto anestesia. Tutto il resto svanì. Le sue mani fecero il loro lavoro con precisione, la mente era lucida. L’operazione stava durando da due ore. Per un attimo, Luca chiuse gli occhi stanchi, finché un grido di Laura lo riportò alla realtà.
Il sangue scIl sangue scaturì improvviso, inondando il campo operatorio, e mentre Luca fissava le mani insanguinate, capì che a volte, anche quando si dà tutto, il dolore di una perdita insegna che la vita non sempre concede un lieto fine, ma che la compassione resta l’unica via per andare avanti.