**Operazione Fallita**
Giorgio non uscì, si riversò fuori dalla macchina. Aveva svolto solo tre interventi di routine, ma sentiva come se avesse trascinato sacchi per tutto il turno. La schiena gli doleva, la testa gli ronzava, gli occhi gli bruciavano come carboni accesi.
A casa crollò sul divano senza nemmeno togliersi la giacca, chiuse gli occhi e cadde immediatamente nel sonno. Si svegliò di soprassalto al trillo insistente del telefono, una melodia allegra che gli trapanava il cervello. Il collo gli faceva male per la posizione scomoda, non aveva la forza di alzarsi. «Dannazione. Credo di essermi ammalato», pensò Giorgio, e con fatica riuscì a separare le palpebre.
Il telefono si zittì per qualche secondo, poi esplose di nuovo con la stessa suoneria irritante. «Dovevo cambiarla da tempo.» A malincuore, Giorgio estrase lo smartphone dalla tasca.
«Pronto», rispose con voce roca dal sonno. Si schiarì la gola. «Pronto», ripetè, più deciso.
«Giorgino, sono all’aeroporto. L’aereo parte tra un’ora. Mio padre è in ospedale per un infarto. Fammi un favore, coprimi, no? Non ho nessun altro a cui chiedere», sentì la voce del collega e amico Enrico Stucchi.
«Io… non mi sento bene. Sono ammalato. Chiama Luca.»
«Ma dai. Prendi un caffè, degli antivirali. Luca ha la moglie, lo sai, un turno extra lo prenderebbe come un tradimento. Marco è ancora troppo inesperto. Il vecchio Bertoldo non regge due turni di fila, non è più giovane. Vado e torno. Dopodomani sono qui. Mi aiuti? Ti ripagherò.»
«Insomma, muori pure, ma l’amico lo devi aiutare. Che tempismo», pensò Giorgio.
«Sì», sospirò rassegnato.
«Cosa hai detto?» chiese Enrico.
«D’accordo, ho detto. Ti copro. Buon viaggio.»
«Sei un vero amico. Io per te…» Enrico iniziò a parlare entusiasta, ma Giorgio non lo ascoltò, chiuse la chiamata.
Mancava ancora tempo al turno di notte. Giorgio si fece una doccia, si rasò, bevve un caffè forte. Si sentì un po’ meglio. Non aveva voglia di tornare in quell’ospedale da cui era appena uscito poche ore prima. «Ce la farò. Forse andrà tutto liscio», pensò mentre si vestiva.
Per alcune ore in reparto regnò la calma. Il sonno lo opprimeva, la testa pesante ciondolava verso il tavolo. Giorgio la scosse, cercando di scrollarsi di dosso la sonnolenza. Un altro caffè forte gli diede un po’ di tregua.
«Dottor Bianchi», sentì una voce lontana. Qualcuno lo scuoteva per la spalla.
Si era addormentato. Alzò la testa dal tavolo. Davanti a lui c’era l’infermiera Silvia.
«Dottor Bianchi, hanno portato un bambino…»
«Sì, scendo subito», disse, cercando di scrollarsi di dosso gli ultimi brandelli di sonno.
Si schizzò il viso con acqua fredda, mentre il bollitore scaldava. Mise due cucchiaini di caffè nella tazza, ci pensò su, e ne aggiunse un terzo. Lo bevve bollente, si sistemò il berretto e scese al pronto soccorso.
Un ragazzino di circa dodici anni giaceva raggomitolato sul lettino. Giorgio lo visitò con cautela.
«Lei è la madre?» chiese a una donna giovane, magra e pallida.
«Cosa ha, dottore?» gli rivolse occhi enormi, pieni di paura.
«Perché non ha chiamato prima l’ambulanza?» domandò brusco, con tono accusatorio.
«Io… sono tornata dal lavoro, mio figlio stava facendo i compiti. Poi ha vomitato. E la febbre è salita. Non mi aveva detto che gli faceva male la pancia da giorni. Cosa ha?» Prese la mano di Giorgio, stringendola con forza.
«Silvia, una barella!» gridò, senza staccare gli occhi dal volto pallido della donna. Si liberò dalla sua stretta. «Firmi il consenso per l’intervento.» Prese un foglio dalla scrivania e glielo porse.
«Un’operazione? Ha l’appendicite?» chiese la donna.
«Peritonite.» Giorgio la guardò con compassione.
Nei suoi occhi si cristallizzò il terrore.
«Firmi. Non c’è tempo da perdere», ripetè.
Lei firmò senza leggere e gli afferrò di nuovo la mano.
«Dottore, salvi mio figlio!»
«Farò tutto il possibile. Non mi intralci.»
Silvia aveva già portato la barella. Insieme vi adagiarono il bambino e si diressero verso l’ascensore. Nel corridoio vuoto, i loro passi frettolosi e il cigolio delle ruote malconce risuonavano sinistramente.
La donna non li lasciava, parlava senza sosta, ma Giorgio non l’ascoltava, concentrato sull’intervento.
Quando entrò in sala operatoria, il bambino era già sul tavolo, sotto anestesia. Tutto il resto svanì. Le sue mani lavoravano con precisione, la mente era lucida. L’operazione era già al secondoMa quando il sangue iniziò a sgorgare incontrollabile dal campo operatorio e il monitor segnò un crollo della pressione, Giorgio capì che quella notte avrebbe portato con sé il peso di un altro fallimento.