Si vergogna di noi: come mio figlio ha dimenticato chi lo ha cresciuto

Nella cucina bianca e immacolata del suo appartamento perfetto, con le finestre panoramiche all’undicesimo piano, Luca sorseggiava lentamente un caffè profumato da una tazza costosa. Indossava un abito impeccabile, i capelli perfettamente pettinati, il volto sereno e sicuro di sé. Era abituato a questa vita — elegante, senza intoppi, senza ricordi del passato. All’improvviso, il campanello suonò. Fece una smorfia: non era il momento giusto. Posò la tazza sul tavolo di marmo e si avviò a malincuore verso la porta.

“Chi è?”

“Sono io, figlio mio… tua madre.”

Si bloccò di colpo. Oltre la soglia, curva per il freddo, c’era una donna in un vecchio piumino, con un fazzoletto sopra al berretto. In mano reggeva una borsa piena di conserve fatte in casa, miele, barattoli legati con stracci. Sotto l’orlo della giacca si intravedevano vecchi stivali logori. Le sue labbra tremavano non tanto per il gelo, quanto per l’emozione.

“Mamma? Perché non mi hai chiamato?” chiese sottovoce, con un tono secco, lanciando un’occhiata nervosa ai lati, nel timore che qualche vicino potesse vederla.

“Figliolo, il tuo numero non risponde. Sono venuta lo stesso… abbiamo un problema. Senza di te non possiamo risolverlo…”

Sospirò, si fece da parte e la fece entrare in fretta. Le afferrò il gomito, la guidò dentro e chiuse la porta di scatto. I suoi occhi vagavano nervosi: come nasconderla?

Luca viveva a Milano da anni. Si era laureato con il massimo dei voti, trovando subito lavoro in un’azienda importante. Connessioni, un po’ di fortuna e determinazione avevano fatto il resto: la sua carriera era decollata in fretta. Ai genitori, che vivevano in un paesino vicino a Perugia, faceva raramente visita. Le rare telefonate erano per Natale o Pasqua. Il passato lo imbarazzava, e di certo non ne era orgoglioso.

“Cosa succede, mamma?” chiese con freddezza mentre lei cercava di togliersi i guanti.

“Il nipotino, il piccolo Matteo, sta malissimo. Carlo e Giulia non ce la fanno più. Hanno appena avuto un altro bambino, Giulia non lavora, e tuo fratello un tempo ti mandava soldi ogni mese quando studiavi… Figliolo, puoi aiutarli? Anche solo un poco…”

Stava per rispondere quando il campanello suonò di nuovo. Si voltò di scatto.

“Stai zitta!” sibilò. “Non farti vedere, per l’amor del cielo!”

Chiuse la porta della camera da letto e corse ad aprire la porta principale. Davanti a lui c’era il suo collega Marco.

“Sentì, Luca, il portiere mi ha detto che è arrivata tua madre?” disse strizzando gli occhi. “Ma aspetta… tu non dicevi che i tuoi sono morti tragicamente in Brasile?”

“Ah! Si sbagliava. Era una vecchietta che cercava un altro appartamento. Ho già sistemato tutto,” rispose svogliato, poi aggiunse: “Ehi, potresti passare dal supermercato? Devo organizzare una cena perfetta per Sofia, la figlia del capo. Potrebbe diventare qualcosa di serio tra noi…”

Gli strizzò l’occhio e lo spinse quasi fuori dalla porta. Tornando in casa, lanciò un’occhiata verso la stanza da letto. Sua madre era seduta sul bordo del letto, immobile. I suoi occhi erano vuoti. Aveva sentito tutto.

“Figlio… ma davvero dici che noi… siamo morti?” chiese con la voce tremante. “Perché menti così? Da dove ti viene tutta questa vergogna?”

Lui fece una smorfia.

“Mamma, basta. Quanto gli serve?”

“Quaranta…” sussurrò lei.

“Migliaia di euro?”

“Ma che dici! Solo normali euro…”

“Mi hai rovinato la serata per questa sciocchezza? Ecco, prendi. Cinquanta. E non presentarti più così, per favore. Ho una vita diversa ora. Siamo persone diverse.”

Le chiamò un taxi, le prenotò una stanza nel più economico albergo vicino alla stazione e le comprò il biglietto di ritorno. Si congedò senza neanche guardarla.

A notte fonda, entrò in camera da letto con Sofia. La ragazza si sedette sul letto, si guardò intorno, e all’improvviso notò quella borsa.

“Che roba è questa? Luca, ma che puzza!”

“La domestica, ha combinato ancora un pasticcio. Porta sempre chissà cosa. Questo mese le taglio il bonus,” disse con nonchalanza, voltandosi dall’altra parte.

Intanto, in un vagone sgangherato di un treno regionale, sua madre tornava a casa. Guardava dalla finestra i lampioni che sfrecciavano veloci e ingoiava le lacrime. Continuava a chiedersi: dove avevano sbagliato lei e suo marito? Dov’era che avevano perso il loro figlio, al punto che ora si vergognava del loro odore, delle loro mani, della loro vita?

E come era possibile che tutto l’amore con cui lo avevano cresciuto fosse diventato, per loro, così doloroso…

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