Pentimento Tardivo

**Pentimento tardivo**

Non avevo mai sognato davvero un secondo figlio. Con Massimo già avevamo un maschietto di sette anni, e tornare alle notti insonni, ai pannolini, al pianto del neonato non mi attirava per niente. E poi, la mia carriera finalmente stava decollando. Ero appena uscita dal tunnel del congedo di maternità, e ora—un’altra gravidanza. Massimo, sfortunatamente, aveva sempre desiderato una femminuccia, e adesso che era successo, sembrava troppo tardi per tirarsi indietro.

La bambina nacque incredibilmente bella: un viso delicato, un nasino perfetto, labbra rosa e, soprattutto, occhi azzurri profondi come campi di fiordalisi d’estate. A guardarli, veniva da sorridere, ma presto tutto cambiò—i medici ci dissero che aveva un difetto cardiaco congenito. Sarebbero servite cure lunghe, forse un’operazione complicata, controlli costanti. La nostra vita si sarebbe sconvolta.

Io ascoltavo e sentivo il mio mondo crollare. Addio feste di lavoro, viaggi all’estero, palestre di lusso, serate fino all’alba e vacanze al mare con le amiche. Non volevo rinunciare a tutto questo. Non a ventotto anni. Massimo mi ascoltò e… fu stranamente veloce nell’accettare le mie ragioni. Decidemmo di rinunciare alla bambina. A parenti e conoscenti dicemmo che era nata morta.

Maria Luisa lavorava come assistente in un orfanotrofio da venticinque anni. Avrebbe dovuto essersi abituata, ma ogni bambino abbandonato le feriva il cuore come fosse la prima volta. Fu particolarmente difficile guardare quella piccola creatura dagli occhi azzurri e lo sguardo limpido, con un’anima così indifesa.

La bimba si affezionò subito a Maria Luisa: le tendeva le braccia, rideva felice, le toccava il viso con le sue manine. Maria Luisa iniziò a pensare: “I miei figli sono grandi, vivono per conto loro. Io e Paolo siamo soli. Abbiamo ancora salute, la nostra casa—un orto, una mucca, le galline. L’aria pulita, la campagna. Perché no?”

Ne parlò al marito. Lui, in silenzio, andò all’orfanotrofio, guardò la bambina e, battendo le palpebre, disse:

“Decidi tu, Maria. Se puoi occuparti delle cure, io ti appoggio. Per i soldi, troveremo un modo.”

“Ce la farò, Paolo, ce la farò!” gli strinse la mano.

“La chiameremo Speranza. Perché abbia la forza di lottare. Il destino stesso le suggerisce questo nome,” disse Paolo prima di uscire.

Così la bambina trovò una vera famiglia. Fu una vita dura: ospedali, esami, riabilitazione, sanatori. Maria Luisa passava le notti accanto al suo lettino, di giorno studiava libri medici, raccoglieva consigli, implorava i dottori per indicazioni. Paolo lavorava senza sosta, dimagrì, si incanutì, ma bastava che Speranza gli corresse incontro e lo abbracciasse per farlo fiorire come un giardino in primavera.

Speranza crebbe buona e luminosa. Tutti parlavano con lei, dagli anziani ai bambini. Aiutava come poteva, e una volta, a cinque anni, portò due pannocchie a nonna Rosina, camminando orgogliosa davanti a lei:

“Ora sta meglio, vero?”

“Certo, piccola, sei il nostro sole,” rispose la vecchietta sorridendo.

Quando arrivò il momento dell’operazione, tutto il paese pregò. Andò bene. La bambina sopravvisse. Il suo cuore—e la sua anima—furono salvati.

Passarono gli anni. Speranza finì il liceo con ottimi voti, si iscrisse alla facoltà di medicina. Una giornata d’aprile la vide camminare in un parco in fiore. Tutto intorno esplodeva di vita, gli uccelli cantavano, la terra si risvegliava. Lei sognava di tornare a casa per le feste di maggio, di aiutare sua madre nell’orto e di bere la sua tisana preferita nel gazebo la sera.

Improvvisamente, qualcosa di morbido le urtò la gamba—un coniglietto di peluche. Su una panchina vicina c’erano un bambino e una donna elegante e curata.

“Perché l’hai buttato?” chiese Speranza.

“Perché è malato e morirà!” sbottò il bimbo con rabbia.

Speranza si confuse. La donna sospirò:

“Scusi… Ha un difetto al cuore. I genitori non lo hanno voluto, così vive con me. È mio nipote…”

Speranza la guardò. Bella, sofisticata, ma gli occhi… vuoti, spenti. Volendola confortare, le raccontò la sua storia. Di come era nata con lo stesso problema. Di come era stata adottata. Di come sua madre e suo padre l’avevano salvata dal buio.

La donna, ascoltandola, impallidì. Era Angela.

La fissava senza riuscire a distogliere lo sguardo. Davanti a lei c’era sua figlia. Quella stessa. Gli occhi azzurri, i lineamenti familiari, tutto le ricordava Massimo. Il cuore le batteva forte, il respiro si fece corto.

“Non è possibile…” sussurrò.

“Tutto è possibile!” rispose Speranza con fiducia. “Basta volerlo, crederci e lottare! I miei genitori mi hanno salvata. Anche per voi può funzionare! Buona fortuna!”

E se ne andò, lasciandosi alle spalle una donna sconvolta.

Angela rimase sulla panchina, distrutta, afflosciata come un’ombra. Tremava per la consapevolezza. Quella era sua figlia. Quella da cui aveva rinunciato. Per la carriera, le feste, la libertà. Ma quella libertà non era mai arrivata. Massimo l’aveva lasciata per un’altra, suo figlio era diventato ingestibile—alcol, risse, una vita vuota. La nuora era scappata, lasciandole il nipote malato da crescere.

Ora voleva correrle dietro, gridarle: “Sono tua madre!”—ma non ne ebbe il coraggio. Non ne aveva il diritto. Aveva rinunciato allora. E il diritto di tornare, l’aveva perso per sempre.

Speranza intanto camminava lungo il viale, guardando il cielo e sorridendo. Non sapeva di aver appena salvato un altro cuore.

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