Là dove un tempo sorgeva una casa

*Diario personale*

Quando Elisa mise piede nel suo paesino natale dopo vent’anni, la prima persona che vide fu il vecchio Gennaro—una volta il postino, ora solo un anziano con lo sguardo annebbiato. Se ne stava seduto su una panchina davanti al negozio mezzo diroccato, quello stesso posto dove un tempo la vita brulicava: gli uomini discutevano davanti a una bottiglia di vino, i ragazzi giocavano a pallone, e le donne portavano pettegolezzi invece di notizie. Sulle sue ginocchia c’era un sacchetto di plastica con la maniglia rotta—dentro, pane, una scatola di pomodori sott’aceto e un giornale sgualcito. Gennaro sgranocchiava semi di girasole e sputava i gusci ai suoi piedi, strizzando gli occhi contro il pallido sole primaverile, come se si stupisse che ancora brillasse in questo angolo dimenticato, abbandonato da tutti—persino da Dio.

Mi guardò a lungo. Senza sorpresa, senza gioia—quasi come se vedesse attraverso di me, verso i giorni in cui me ne ero andata, giovane e piena di rabbia.

«Elisa?» borbottò. «Allora sei ancora viva?»

«Pensavi di no?» sorrisi debolmente.

«Qui avevamo già deciso: o in città chissà dove, o sposata con qualche tedesco, o—mi perdoni il Signore—sotto terra…»

Non risposi. Annui soltanto. Sì, viva. Ma non più la stessa.

Dietro di me c’era quella casa. Storta, grigia, con le crepe sui muri, la veranda marcia, il gradino dove una volta mia madre mi aspettava di ritorno dal lavoro, e poi—solo silenzio. Sembrava più piccola dei miei ricordi. Stanca. Curvata. Come un vecchio a cui nessuno fa più visita. Aspettava—non il perdono, non un ritorno—ma la fine. Tranquilla, discreta, come era stata la sua esistenza negli ultimi anni.

Quel giorno la girai attorno. Senza entrare. Senza toccare nulla. La guardai come si guarda una ferita guarita ma che ancora prude. Dentro di me tutto era teso come un filo sul punto di spezzarsi. Se avessi girato la maniglia, tutto quello che trattenevo sarebbe crollato.

Me ne ero andata a diciannove anni. Dopo che mia madre morì e mio padre iniziò a bere così tanto che la mattina non ricordava più chi fossi. Mi chiamava con nomi di estranei. Mi parlava come se fossi un fantasma dei suoi vecchi sogni. La casa era diventata insopportabile. Come un cappotto troppo stretto—da buttare via, ma impossibile da indossare. Le liti erano quotidiane. Per sciocchezze, per il silenzio, per ogni dettaglio. Io urlavo, lui lanciava tazze contro il muro. L’ultima cosa che mi disse fu: «Non ho bisogno di te. Sparisci.» E io sparii. Andai in città. Poi—ancora più lontano. Prima in periferia, poi a Milano, e poi semplicemente—via dal passato.

Lavorai dove potevo: cameriera, commessa, dattilografa. Lavai scale, vissi in stanze con odori che non erano i miei. Cucivo, scrivevo poesie—finché le parole smisero di salvarmi. La vita scorreva come acqua in un tubo arrugginito—sporca, rumorosa, a volte ammuffita. Ma scorreva. E io con lei.

Non scrissi a nessuno. Non telefonai. Non sapevo se mio padre fosse vivo. Fino a quando una chiamata: un uomo del municipio mi informò che era morto. Una settimana prima. Da solo. Senza testimoni. I vicini se ne accorsero per l’odore. Lo seppellirono a spese del comune. La casa era ancora lì.

Ed io tornai. Senza capire perché. Per controllare? Perdonare? Chiudere quel capitolo? O solo per assicurarmi che fosse davvero andato.

Al terzo giorno entrai in casa. Aprii la porta a fatica, inspirai quell’odore—di muffa, tabacco, tempo impregnato nelle pareti. Tutto era al suo posto. Il tavolo dove un tempo si preparava la pasta. La poltrona dove lui sedeva. Il giornale sul davanzale. La tazza con scritto «Miglior papà»—grottesca, amara, quasi una beffa. La casa taceva, ma le pareti sembravano sussurrare: ricordi?

Rimasi in mezzo a quel silenzio senza sapere perché fossi lì. Per perdonare? Per assicurarmi? O solo per mettere un punto?

Passai una settimana a pulire la casa. Pitturai la recinzione sconnessa, riparai il tetto, strusciai le finestre fino a farle cigolare. Non perché volessi restare. Ma perché qualcuno doveva ricordare a quella casa che era ancora viva.

Al nono giorno ripartii. Niente oggetti, niente souvenir. Solo una foto: io a otto anni, mia madre ancora giovane, mio padre che sorride. O finge. Ma eravamo tutti e tre lì. Misi la foto nel portafoglio. Non per rimpiangere. Per non dimenticare.

La casa rimase. Stanca, scrostata. Ma non vuota. Conservava passi, voci, litigi, risate, l’odore della marmellata, ombre di notti e parole che non esistono più. A volte il dolore non se ne va. Ma impari a viverci.

A volte una casa smette di essere una ferita. Diventa terra. Quella stessa su cui un tempo hai imparato a camminare. A cadere. E a rialzarti.

E questo è già abbastanza per ricominciare. Non da zero. Da quello che è rimasto. E che ora ti appartiene. Per sempre.

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