**Quel Giorno Stesso**
Tutto cominciò perché Giulia si svegliò tardi. Non di mezz’ora, no: aprì gli occhi a un quarto alle dieci, quando di solito già alle otto era alla fermata con la tazza termica e lo sguardo annebbiato. Il cuore le sprofondò come se qualcuno avesse strappato via le fondamenta della sua routine. Il telefono era scarico: il cavo, per sfortuna, si era staccato dalla presa durante la notte. Dal rubinetto non usciva una goccia—manutenzione programmata, che lei, ovviamente, aveva dimenticato. In cucina, un tintinnio, un tonfo: la sua tazza preferita, con su scritto “Non mollare”, si era frantumata. Restavano solo cocci e silenzio.
Quel silenzio denso, opprimente, che fa ronzare le orecchie. Quando la casa non fa rumore, ma respira. E anche tu respiri—non per sollievo, ma perché non puoi più trattenerlo dentro.
Giulia arrivò in ritardo al lavoro, ovviamente. Entrò in ufficio coi capelli arruffati, senza trucco e con la manica del cappotto macchiata. I colleghi la guardarono. Qualcuno sbuffò, altri distolsero lo sguardo, fingendosi occupati. La capa sospirò con un’espressione che sembrava dire: *Anche stavolta, hai deluso il mondo intero.* E la giornata andò a rotoli—come se qualcuno avesse tirato un filo e tutto si fosse sfilacciato.
Giulia non si giustificò né si lamentò. Si sedette al pc e aprì la cartella giusta. Ma dentro le prudava l’impotenza, come la pelle sotto un maglione sottile, che devi indossare ma che ti tortura. Era come se il mondo le sussurrasse: *Non dovrebbe essere così. Lo sai.*
Dopo pranzo, la chiamarono dalla scuola: suo figlio aveva litigato con un insegnante. Minacciavano una riunione disciplinare, volevano una lettera di scuse, parlavano di sanzioni. Poi, un sms della banca: la carta era in rosso, l’ultimo pagamento non era andato a buon fine. E infine, un messaggio dalla vicina con una foto: *È da te che gocciola?* Sul soffitto, una macchia che sembrava una ferita, lenta a espandersi sulla pelle della sua vita.
Di sera, Giulia era seduta sui gradini freddi del palazzo. Le calze si erano attaccate alle gambe, le dita erano gelate. Le spalle curve, la borsa spalancata come un’anima allo scoperto, esausta. La giornata non era solo andata male—l’aveva messa alla prova, premendo come un dito su un livido.
Poi, accanto a lei si fermò una bambina. Piccola, magrolina, con uno zaino enorme e gli occhiali storti.
— Signora, sta male?
Giulia alzò lo sguardo. Voleva ignorarla, tacere, ma non ci riuscì. La domanda era semplice, sincera. Senza giudizio.
— Sì, sto male.
La bambina si accucciò. Tirò fuori dallo zaino una mela, un po’ ammaccata ma pulita. Gliela porse con entrambe le mani.
— La mamma dice che quando qualcuno sta male, bisogna condividere. Anche poco. Anche una mela.
Giulia la prese. Ne addentò un pezzo. Dolce, con una punta di acido. Il profumo le ricordò l’inizio di settembre e la fila a scuola. Qualcosa dentro di lei si sciolse. Non dolore—solo rumore. Che ora taceva.
— Grazie. Come ti chiami?
— Sofia. E lei?
— Giulia.
— Non si preoccupi, Giulia. Andrà meglio. È solo un momento no.
Giulia annuì. Appena accennato, ma con un abbozzo di sorriso.
La bambina si alzò, sistemò lo zaino e se ne andò. Non si voltò. Camminava spedita, come se sapesse di aver fatto quel che doveva. Giulia la guardò allontanarsi. Nel petto, all’improvviso, si accese una sensazione strana. Come se qualcuno avesse acceso un piccolo fuoco dentro di lei.
Si rialzò. Tornò a casa. Si tolse il cappotto. Chiamò il figlio. Non per sgridarlo, ma solo per chiedergli come stava. Gli disse *scusa*, senza nemmeno sapere perché. Voleva solo essere la prima a dire qualcosa di gentile.
Poi riempì la ciotola del gatto. Spazzò il pavimento. Raccolse i cocci della tazza. Tutti gesti semplici, ma per la prima volta in quel giorno—avevano un senso.
L’indomani mattina, Giulia si comprò una tazza nuova. Rossa. Vivace, come una promessa. E una sveglia meccanica—con un ticchettio lieve, come un sussurro: *Sei viva. Il tempo passa—e tu con lui.*
A volte tutto crolla non con fragore, ma lungo le cuciture. Poi, si ricompone. Non con le stesse mani, né con gli stessi pezzi. Ma si ricompone. Con una mela. Con la voce di una bambina. Con l’istante in cui decidi: basta. È ora di respirare.