Il Traditore Nobile: La Storia di un’Illusione

**Il Traditore Nobile — Storia di un’Illusione**

Ci conoscemmo quando ogni innamoramento sembra destino. Luca era un ragazzo mingherlino, con una chitarra sulle spalle e un quaderno sgualcito tra le mani, pieno di versi scritti male. Mi aspettava davanti al palazzo dopo scuola, fingendo di essere lì per caso, e sorrideva con una sincerità da bambino.

“Giulia, ascolta questa nuova canzone,” sussurrava, sfiorando le corde della chitarra.

Io ascoltavo. Anche se stonava e i suoi versi erano sdolcinati, in quegli occhi brillava qualcosa di tenero, e non potevo ignorarlo.

Dopo il liceo ci separammo: io andai a studiare pedagogia a Firenze, lui ingegneria a Torino. Ma Luca continuava a scrivermi. A volte chiamava alla reception della mia residenza universitaria, altre mandava cartoline stropicciate con frasi come: “Senza di te tutto è grigio, mia rossa.” Veniva a trovarmi in treno, spendendo i suoi ultimi soldi pur di stare insieme almeno una sera.

Ricordo una volta che ebbi la febbre alta, e lui si presentò sotto la mia finestra alle tre di notte con un thermos e delle pillole. Sussurrò attraverso il vetro: “Te l’avevo detto, senza di me non ce la fai.” Io ero avvolta in una coperta e piangevo dalla felicità.

Dopo l’università, Luca mi propose di sposarlo—senza anelli né fiori, sulla stessa panchina del parco dove ci eravamo baciati la prima volta.

“Sposami, Giulia,” disse, con gli stessi occhi che aveva a diciassette anni.

“Solo se mi prometti di non diventare mai un uomo noioso in giacca e cravatta,” risposi ridendo.

“Lo giuro solennemente!”

Pensavamo di trasferirci a Roma, ma la madre di Luca si ammalò gravemente. Restammo nel nostro paesino in Toscana. Lui trovò lavoro in un negozio di elettronica, io in una scuola elementare. Tutto era provvisorio. O almeno, così credevamo. Ma il provvisorio diventò definitivo.

Affittavamo un bilocale malconcio, bevevamo caffè economico e organizzavamo “serate di ballo” sul vecchio tappeto, con la musica di un mangianastri. Quando Luca ricevette il primo bonus, mi portò in un ristorante dove il conto del dolce superava il suo stipendio settimanale. “Ma ne è valsa la pena,” disse, baciandomi le dita.

Poi sua madre morì. Ci lasciò un appartamento spazioso, e decidemmo di avere un figlio. Luca sognava una bambina rossa come me, ma nacque un maschietto. Visse solo trentadue giorni.

E dopo, tutto andò a rotoli.

Non sapevamo come affrontare il dolore insieme. Eravamo abituati a vivere alla leggera, a scherzare, a fuggire dai problemi. Ma il dolore ci divise. Lui si immerse nel lavoro, io nella depressione. Quando mi ripresi, lasciai la scuola—non sopportavo più di vedere i bambini degli altri.

Dopo qualche anno, Luca ebbe una promozione, ma non gli bastò. Si licenziò, decise di aprire un’attività in proprio. Disse: “Conosco il mercato, ho i contatti, ho trovato una nicchia.” Non si sbagliava. In un anno, avevamo l’auto, un guardaroba per ogni stagione, vacanze all’estero. Non riconoscevo più la mia vita.

Ma insieme ai soldi, se n’era andata la complicità. Non parlavamo quasi più. Io ci provavo—cucinavo i suoi piatti preferiti, lo invitavo a teatro, pianificavo cenette romantiche. Lui si limitava a dire: “Dopo.” E quel dopo non arrivava mai.

Mia madre ripeteva: “Giulia, una famiglia senza figli è incompleta. Non aspettare, sarà troppo tardi.” Io volevo. Ero pronta. Ma Luca distoglieva lo sguardo. Se provavo a parlarne, rispondeva con un secco “no” e si chiudeva in sé stesso.

“Sono passati sei anni,” dissi un giorno, “forse è il momento?”

Lui posò bruscamente la forchetta.

“Basta.”

Mi sentii persa.

“Perché? Siamo una famiglia…”

“No, Giulia. Non se ne parla.”

Si alzò e lasciò la cucina. Io rimasi lì, in quel locale perfetto, con le stoviglie costose e un vuoto dentro.

Poi arrivò Marco. Era stato lo stesso Luca a presentarcelo—come socio. Elegante, educato, di buone maniere. Mi invitava alle mostre, conosceva i nomi degli artisti, mi ascoltava. Una volta, senza guardare, mi porse un catalogo su Modigliani.

“Luca mi ha detto che adori Modigliani.”

“Si è confuso,” sbuffai. “Amo Caravaggio.”

Marco sorrise.

“Allora parliamo di Caravaggio. Prendiamo un caffè?”

Non risposi. Ma Marco non si arrese. Biglietti per il teatro, fiori, conversazioni. Decisi di parlarne con Luca.

“Ascolta, Marco mi invita a una mostra. Si comporta come…”

“Vacci,” mi interruppe. “Tanto ti annoi.”

“Non capisci quello che dici?”

“È una brava persona, Giulia. E tu gli piaci.”

Restai senza parole. Mi guardava senza traccia di dolore. Calmo. Come se avesse preparato quel momento.

“Hai un’altra, vero?”

“Sì. Ma non voglio che tu soffra. Volevo solo che non restassi sola.”

Risi. Amaramente. Quasi con rabbia.

“Quindi mi hai spinta verso di lui per non sentirti un traditore?”

Non rispose. Il telefono vibrò. Guardò lo schermo—e nei suoi occhi brillò quella stessa scintilla. Quella che una volta era solo per me.

“Vai,” sussurrai. “Ti aspetta.”

Eravamo nella nostra cucina perfetta. E tra noi c’era tutto ciò che ormai non potevamo più recuperare.

“Mi dispiace,” sospirò.

Ma non c’era perdono. Non era solo andato via con un’altra. Aveva fatto di tutto per sembrare nobile. Per non sentirsi colpevole. Per lasciarmi sola, con un “nuovo marito” regalato e un senso del dovere avvelenato.

La mattina dopo feci le valigie. Senza scene, senza urla. Il taxi svoltò l’angolo, e all’improvviso ricordai quel ragazzo magro con la chitarra che una volta mi sussurrava:

“Giulia, imparerò a scrivere poesie vere per te.”

Non imparò. Ma imparò a mentire così bene da crederci perfino lui.

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