«Non è suo figlio!» urlava la suocera. Poi lui tornò con un anello in mano… Troppo tardi.
Non dimenticherò mai quella sera. Ancora oggi, tutto in me trema al ricordo. Mi ero preparata come per una festa: candele, un’insalata leggera, il suo salmone al forno preferito, vino bianco. E soprattutto, la notizia. La più grande della mia vita.
Avevo appena diciannove anni. Vivevo a Catania, in un modesto appartamento in periferia che condividevo con Luca. Stavamo insieme da quasi un anno. Mi riempiva di fiori, mi chiamava “la mia felicità”, prometteva di essermi accanto per sempre. Gli credevo. Facevamo progetti, quelli ingenui e giovanili, quando pensi che l’amore basti a tutto.
E poi glielo dissi:
— Luca, diventerai presto papà…
Lui si bloccò. Poi il suo viso si contorse.
— Cosa? Che hai detto?
— Sono incinta, — ripetei con una voce che tremava, sperando ancora di vedere gioia nei suoi occhi.
Ma la risposta fu un urlo. Duro, cattivo.
— Non è mio figlio! Hai perso la testa? Non sono pronto per questo. Vattene con la tua gravidanza!
Sbatté la porta. E sparì.
Chiamai, ma non rispose. Poi il mio numero finì nella lista nera. Mi sentivo male, fisicamente e moralmente, ero terrorizzata. Ma soprattutto, soffrivo. Perché l’uomo con cui sognavo il futuro, in un attimo, era diventato un estraneo.
Decisi di provare con sua madre. Maria Grazia mi aspettò sulla soglia del suo appartamento a Palermo. Non mi fece nemmeno entrare: in vestaglia, braccia conserte, occhi pieni di rabbia.
— Vattene, — disse. — Non osare giocare con la mia famiglia. Quel bambino non è di Luca! Cerchi solo qualcuno che ti mantenga. Mio figlio ha altri piani, non è obbligato a pagare per i tuoi errori!
Rimasi nell’androne, sentendo il cuore in pezzi. Niente sostegno, niente fiducia, niente umanità. Solo disprezzo.
Ma nemmeno allora pensai di rinunciare a mio figlio. Era già dentro di me. Era mio. Puro, innocente. Perché doveva pagare per la viltà degli adulti?
Passarono tre anni. Diedi alla luce un bambino. Lo chiamai Matteo. E ogni mattina, quando mi guarda e sorride, ringrazio il destino per non essermi arresa. Sì, è stato difficile. Lavoravo di notte, facevo lavoretti online, lavavo a mano, mangiavo pasta e basta. Ma Matteo è il mio sole. La mia vita.
Pochi giorni fa… suonarono alla porta. Sulla soglia c’era Luca. Lo stesso. Con uno sguardo diverso, invecchiato, dimagrito.
— Possiamo parlare? — chiese piano.
Mi raccontò di un terribile incidente. Lo salvarono, ma… ora era sterile. I medici dissero che non avrebbe più avuto figli. La fidanzata lo lasciò, non resse. E allora si ricordò di me. Di Matteo. Di come aveva “perso la sua occasione”.
— Voglio stare con voi, — disse. — Sposarti, prendermi cura di voi, crescere Matteo. Riparare tutto.
Lo guardai e dentro di me sentii il rumore di quella porta che lui aveva sbattuto anni prima. Rividi il suo viso, quella sera che mi tradì. Ricordai le notti in cui accarezzavo la pancia, pregando che il mio bambino nascesse sano. Le lacrime silenziose quando Matteo disse “mamma” per la prima volta. E semplicemente… gli chiusi la porta. Senza parole, senza rimproveri. Perché tutto era già stato detto.
Ora non rispondo più alle sue chiamate.
Qualcuno dirà che bisogna perdonare, dare un’altra possibilità. Ma io ho un figlio. E merita un padre che lo ami dal primo respiro, non uno che torna solo quando non ha altre vie.
Voi che ne pensate? Ho fatto bene a non farlo rientrare nelle nostre vite? A volte, chiudere una porta è l’unico modo per aprirne un’altra verso la vera felicità.