**Giorno 15, Settembre**
A volte mi chiedo come siamo arrivati a questo punto. La storia inizia con due sorelle, Luisa e Maria, nate in un paesino sperduto della Sicilia, dove tutti si conoscono e i pettegolezzi volano più veloci del vento di scirocco.
Luisa era la stella del paese: diploma con lode, poi l’università a Milano e infine un buon matrimonio con un uomo che lavorava in banca. Insieme ricevettero in eredità un piccolo appartamento nel quartiere di Porta Romana. Maria, invece, rimase nella casa dei genitori. Due matrimoni falliti, due figli. Dopo i divorzi, tornò con i bambini sotto lo stesso tetto dei vecchi.
Noi, io e Luisa, abbiamo avuto i nostri alti e bassi. A volte i soldi c’erano, a volte no. Ma piano piano, mattone dopo mattone, abbiamo costruito qualcosa. Comprammo una stanza, poi la vendemmo per investire in un bilocale a San Siro. Doveva essere il trampolino per nostro figlio, Marco, studente di medicina. Sognavamo che dopo la laurea e il matrimonio, lui e la futura moglie avrebbero iniziato lì la loro vita.
Poi, tutto è andato storto.
Il figlio di Maria, Antonio, finito il liceo, volle trasferirsi a Milano per studiare all’ITS. Denaro per un affitto? Zero. Maria, con quella sua insistenza tipica, pregò Luisa di ospitarlo «per un paio d’anni». Promesse: avrebbe pagato le bollette, trovato un lavoro, e loro lo avrebbero aiutato appena possibile. Luisa cedette.
Due anni passarono. Marco si fidanzò con Sofia e le chiese di sposarlo. Avvisammo Antonio:
— Entro l’estate devi andartene. A settembre ci sarà il matrimonio.
Sembrava semplice. Invece arrivarono le scuse:
— Ho un nuovo lavoro, ma lo stipendio è una miseria…
— La mia ragazza aspetta un bambino…
— Stiamo organizzando il matrimonio…
Ancora una volta, abbiamo allungato i tempi. Fino a novembre, punto.
Poi l’inverno. Matrimoni celebrati, bambini nati. Ma Marco e Sofia rimanevano con noi, mentre nel *loro* appartamento c’erano Antonio, sua moglie Elena e il neonato. E niente segnali di volersene andare.
Scuse su scuse:
— Lo stipendio è in ritardo…
— Abbiamo trovato un affitto, ma è una topaia…
— Ho perso il cellulare, per questo non rispondevo…
— Sono stato male, quasi in ospedale…
Luisa chiamava, ma niente. Una volta andammo di persona: non aprirono. La seconda volta, Antonio spalancò la porta e… mi saltò addosso. Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Luisa tremava di rabbia. Per la prima volta, capimmo che il sangue non significa amore. Significa sfruttamento. Significa farti sentire in colpa mentre ti succhiano l’anima.
Poi arrivarono le chiamate velenose. Maria e i nonni tempestarono Marco:
— Non ti vergogni?
— Elena ha perso il latte per lo stress!
— Cacciare un neonato, proprio voi?!
Ma questa volta non ci siamo piegati. Denuncia, polizia, e dopo due mesi… sgombero.
Marco e Sofia finalmente hanno la loro casa. Noi? Non rispondiamo più al telefono. Né a Maria, né ai parenti. Nessuno.
La famiglia è chi ti sta vicino, non chi ti calpesta col sorriso.
E voi? I legami di sangue sono obblighi senza limiti, o un rapporto che deve essere rispettato da entrambe le parti?