Figlia Segreta da Non Scoprire

La figlia di cui nessuno avrebbe dovuto sapere

Ginevra non si sentiva in colpa per essere nata. Eppure, il peso del modo in era venuta al mondo le schiacciava le spalle con una forza tale che a volte avrebbe voluto svanire. La sua esistenza non era un errore, ma una passione. Un istante che suo padre aveva cercato disperatamente di nascondere a tutti. Soprattutto alla sua famiglia.

Sua madre era una giovane e ingenua studentessa quando aveva avuto una breve, quasi innocente storia con un professore dell’Università di Bologna. Lui era sposato, aveva già una figlia — Beatrice. Una famiglia felice, all’apparenza. Stabilità. Foto appese alle pareti e cartoline firmate. Sua madre era solo un episodio. Ma quell’episodio si era rivelato fatale.

Ginevra non conosceva veramente suo padre. Solo quei rari incontri in cui si presentava con una borsa piena di dolci e libri nuovi. Passeggiavano nel parco cittadino, dove lui cercava sempre di mantenere le distanze, ma non riusciva a nascondere la tenerezza nei suoi occhi. Ricordava solo una volta, un’unica volta, in cui si erano incrociati tutti e tre — lui, Beatrice e lei. Quel giorno le era sembrato che fosse tutto reale. Che tutto potesse essere diverso. Che papà non fosse più un segreto, ma qualcuno di cui poter tenere la mano senza nascondersi.

Ma era un’illusione. La chiamavano “frutto di una passione”. Lui stesso lo aveva detto una volta, non a lei, ma a sua madre. Che non poteva distruggere la sua famiglia. Che aveva già Beatrice, una moglie, una vita ordinata. Ma lasciarla completamente era impossibile. Così Ginevra visse nell’ombra. Ai margini della sua vita, come una macchia su una fotografia.

Quando Ginevra andò al funerale del padre, rimase in disparte. Come un’osservatrice. Beatrice piangeva, sua madre si teneva su a stento. E Ginevra stava in silenzio. Dentro di lei ribolliva tutto. Guardava Beatrice, cercando nei suoi tratti gli stessi lineamenti che vedeva nello specchio. Avevano lo stesso padre. Ma Beatrice lo aveva avuto tutto, mentre Ginevra soltanto pochi minuti rubati in segreto.

Sapeva che nel testamento c’era un appartamento. Quello della nonna. Lo stesso in cui lui era nato. L’aveva lasciato a lei. Non alla moglie di Beatrice, non a Beatrice stessa — solo a Ginevra. E in quel gesto c’era tutto. Il riconoscimento che aveva atteso. Tardivo. Silenzioso. Ma infinitamente importante.

Nello studio del notaio, l’aria era carica di tensione. Gli sguardi di tutti la bruciavano. Ginevra sedeva come su una graticola. Beatrice la fissava come se non fosse lì per ascoltare un testamento, ma per rubarle la vita. In quegli occhi c’era tutto: incomprensione, rabbia, dolore. Ginevra avrebbe voluto dirle: *Non lo faccio per l’appartamento. Lo faccio per la memoria. Per smettere finalmente di non essere nessuna.*

Ma non lo disse. Perché sapeva che, dentro quell’altra famiglia, non l’avrebbero capita. Lì non l’aspettavano, non l’avevano mai chiamata, e tanto meno l’avrebbero riconosciuta.

Quella sera, Ginevra sedeva nel suo piccolo appartamento, ancora disabitato. Quello che il padre le aveva lasciato. Sul davanzale c’era una tazza di tè ormai freddo. La stanza odorava di polvere e di qualcosa che sapeva d’infanzia. Ginevra ricordava quando, una volta, lui era arrivato sotto la pioggia. Bagnato fradicio, irritato, stanco. Ma con una scatola di cioccolatini e un libro nuovo. Allora si era seduto accanto a lei, senza parlare, e le aveva accarezzato i capelli. Senza parole. Solo il calore della sua mano. In quel momento, si era sentita davvero figlia.

Ora tutto era passato. E non c’era nessun futuro con quella famiglia. Ginevra capiva che Beatrice non l’avrebbe mai accettata. E la madre di Beatrice ancora meno. Era comprensibile. Chi avrebbe voluto dividere i ricordi? L’amore? O perfino il rancore?

Ma lei non poteva rinunciare. All’appartamento. A quel frammento di riconoscimento. Non era avidità. Era il diritto di esistere.

Ginevra sapeva che sarebbe rimasta per sempre un’estranea. Ma forse, un giorno, Beatrice avrebbe capito: nemmeno lei aveva scelto. Non aveva chiesto di nascere nell’ombra.

E forse, un giorno, incontrandosi per caso per strada, Beatrice le avrebbe detto semplicemente *”ciao”*. Senza rabbia. Senza rimproveri. Solo umanamente. E allora Ginevra avrebbe risposto.

— Ciao. Siamo… un po’ simili, no?

E se fosse successo, sarebbe valso la pena. Per un attimo, non sarebbe stata solo un “frutto di passione”. Ma una figlia. Vero.

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