Quando il gatto la chiamava “figlia”, ma era la moglie: una commedia iniziata per scherzo

Durante le festività di maggio, mi trovai a casa di amici a Napoli. L’atmosfera era accogliente, anche se la compagnia era per lo più sconosciuta. Tutti chiacchieravano, ridevano e preparavano la tavola. La mia attenzione fu catturata da una coppia: un uomo sui cinquantacinque anni e una ragazza che ne dimostrava al massimo ventisette. Lui, dall’aria distinta, con capelli tempestati di sale e pepe; lei, vivace e sorridente, come se avesse portato il sole in quella stanza. Si chiamavano Luca e Giovanna. Lei lo chiamava sempre “papino”, e io, ingenuo, mi commuovevo nel vedere un rapporto padre-figlia così tenero e sincero.

Ma quando si prepararono a tornare a casa, ridendo, Giovanna spiegò: “Ci aspetta nostro figlio, non si addormenterà senza di noi”. Rimasi senza parole. Dopo la loro partenza, chiesi sottovoce ai padroni di casa: “Ma come? Quale figlio? Sono marito e moglie?” Mi risposero di sì. Sì, marito e moglie. Sì, avevano un figlio insieme. E “papino” era solo un modo scherzoso di chiamarsi. All’inizio della loro storia, una commessa in un supermercato aveva scambiato Giovanna per la figlia di Luca. Da allora era diventata un’abitudine, prima per scherzo, poi per affetto.

Mi raccontarono la loro storia, che all’inizio sembrava una barzelletta, ma si rivelò la prova che l’età non è un ostacolo alla felicità.

Luca era stato un pittore, dotato ma sfortunato. Aveva alle spalle due matrimoni falliti, una figlia adulta con cui aveva perso i contatti, e una malinconica dipendenza dall’alcol. A quarantacinque anni si fermò, si guardò allo specchio e capì che non poteva continuare così. Ricominciò a dipingere, ma nessuno comprava le sue opere. Poi, un incontro casuale con Giovanna, allora ventiduenne. Non capiva cosa lei vedesse in lui: non curato, senza un euro e senza prospettive. Ma lei lo guardò e decise di restare.

Il suo amore fu come un soffio di vita. Per lei smise di bere, si rimise in forma e ricominciò a creare. Le sue opere iniziarono a vendere, poi arrivarono le gallerie e le commissioni per decorare ristoranti. I soldi arrivarono, e con loro la stabilità, la sicurezza e uno scopo. Ora, dieci anni dopo, vivono in un bell’appartamento a Firenze, viaggiano e crescono il loro bambino. Lei è la moglie di un uomo rispettato e benestante, eppure un tempo aveva visto solo un uomo stanco, con una giacca vecchia.

Certo, all’inizio amiche e parenti le dicevano: “Ma sei pazza, Giovanna? Potrebbe essere tuo padre!” Forse ebbe dei dubbi, ma seguì il cuore. E non si sbagliava. Luca la considera il suo miracolo, un dono immeritato. È diventato il padre che non era mai stato prima: paziente, affettuoso, legato al suo bambino. Gioca con lui, legge favole, passeggia nel parco. Persino con la figlia maggiore i rapporti si sono ricostruiti, perché ha visto che suo padre era cambiato.

Questo “matrimonio ineguale” si è rivelato più felice e solido di tante coppie con pochi anni di differenza. Ne conosco molte di storie così. Un mio conoscente, uno chef a Bologna, sposò a cinquant’anni una ragazza di venticinque. Non aveva mai cucinato in vita sua, ma ora non lascia avvicinare la moglie ai fornelli: “Vai al cinema, lascia fare allo chef!”

Perché gli uomini dopo i quaranta sono i migliori mariti. Hanno già fatto esperienza, commesso errori, vissuto abbastanza. Cercano la pace, la casa, l’amore sano. Imparano a godersi ogni istante con la famiglia. Le donne li trovano interessanti: non sono ragazzi che parlano solo di feste, ma uomini che hanno vissuto e sanno apprezzare, proteggere, insegnare. Possono essere guide, compagni, amanti.

E soprattutto, diventano padri eccezionali. Anch’io sono così. Mia figlia più piccola ha otto anni e io cinquantaquattro. Tutti dicono che sono il padre che avrei dovuto essere da sempre. Prima non ero pronto. Ora sì.

Ogni mattina corro al parco. Non per moda, ma perché voglio vivere a lungo. Voglio insegnare a mia figlia ad andare in bici, consolarla quando prenderà un brutto voto, esserci quando avrà il primo appuntamento. Questo è il vero carburante della vita, non la birra sul divano e i discorsi sulle tasse.

Jacques Cousteau diceva: “I bambini piccoli allungano la vita”. Lui ebbe figli anche a settant’anni, e non era uno scherzo. Un uomo con un bambino è un motore acceso. È attento, energico, pieno di vita. Perché ha qualcuno per cui vivere. Non guarda altre donne, il suo cuore è pieno. Non perde tempo a lamentarsi, pensa alla scuola, ai gelati, alla famiglia. Vuole tornare a casa.

A cinquant’anni, essere un buon padre non è un sacrificio, è un privilegio. È molto più dignitoso che essere “il re della movida” o “l’esperto di grigliate”.

E quando una moglie più giovane matura, la differenza d’età svanisce. Resta solo l’amore: vero, profondo, puro. Se ancora dubitate che un uomo più grande possa essere la scelta giusta, guardate coppie come Luca e Giovanna. Dove uno scherzo su “papino” si è trasformato nel matrimonio più felice che potessero desiderare.

La lezione? L’amore non ha età, ma a volte ha bisogno di tempo per fiorire. E quando lo fa, può essere più forte di qualsiasi pregiudizio.

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