Mia suocera mi maledice perché le ho rubato il figlio, che ha smesso di assecondare ogni suo capriccio.
Tre anni fa, quando ho varcato per la prima volta la porta della famiglia di mio marito, ho capito subito: in quel nido, per il mio Enrico non c’era spazio per la felicità. Tutto l’affetto di sua madre andava al figlio minore, Luca, mentre Enrico era solo un’ombra – il bidello di famiglia, sempre pronto a chinare la testa davanti a ogni suo ordine. Luca, invece, nuotava nell’adorazione: coccolato, protetto come un prezioso cristallo, senza dover alzare un dito.
La suocera, Rosanna Fiorelli, e il suocero, Giuseppe Bianchi, vivevano in una grande casa in pietra ai margini di un paesino tra le colline toscane, circondato da campi infiniti e un fiume. In un posto così, le faccende non mancavano mai: sistemare il portico, rinforzare la legnaia, zappare l’orto. E poi galline, pecore, piante da curare – lavoro per una squadra intera. Ringraziavo il cielo che io ed Enrico vivessimo lontano, a Milano, a tre ore di macchina da quelle terre. Anche lui era felice di quella libertà. Ma non appena metteva piede a casa dei genitori, veniva sommerso da una valanga di compiti, come se non fosse suo figlio, ma un bracciante assunto per un tozzo di pane.
Quando abbiamo iniziato a stare insieme, Rosanna ci cantava le lodi della vita di campagna: falò sotto le stelle, canne da pesca lungo il fiume, aria fresca e vino fatto in casa. Ci siamo lasciati convincere e decidemmo di passare la prima vacanza insieme lì. Sognavamo tranquillità, lunghe serate in riva all’acqua, silenzio rotto solo dal fruscio delle foglie. Ma i sogni si sono infranti contro la realtà ancora prima di scendere dal treno.
Appena arrivati, stanchi morti, varcammo la soglia e la vacanza si trasformò in polvere. A Enrico misero in mano un paio di stivali rotti e lo spedirono a sistemare il recinto. A me, senza neanche darmi tempo di riprendere fiato, fecero sedere al tavolo con davanti una montagna di patate e piatti sporchi di qualche festa. E poi, cucinare per tutta la combriccola: suocero, suocera, amici, parenti lontani. Due settimane di ferie diventarono una galera. Il falò lo accendemmo una volta sola, e solo per arrostire la carne per gli ospiti. Al fiume, Enrico non ci è mai andato. Ma la cosa che mi faceva più arrabbiare era il comportamento di Luca. Noi e mio marito ci davamo da fare come muli, mentre lui, pigro e compiaciuto, se ne stava in veranda col telefono o dormiva fino a mezzogiorno. La sua vita era divisa in tre punti: divano, cucina, bagno. E intanto Rosanna lo guardava come se fosse l’unica luce dei suoi occhi.
Al settimo giorno di questo incubo, non ce la feci più. Di notte, finalmente soli, chiesi a Enrico: *”Perché tuo fratello non fa niente? A parte dormire, cosa combina?”* Mio marito, fissando il soffitto sfinito, mi rispose che Luca era un *”genio in erba”*. La madre credeva che dovesse conservare le energie per lo studio, e che il lavoro sporco non fosse degno di lui. Lo studio, però, durava già da nove anni: prima bocciato, poi ripescato, poi di nuovo fallito. E Enrico? Lui aveva sempre corso in aiuto: riparava il tetto, spaccava la legna, zappava l’orto. Fino a quando io non entrai nella sua vita.
Quella “vacanza” fu l’ultima goccia. Iniziai a parlare a Enrico del fatto che era ora di togliersi quel peso dalle spalle. Perché doveva spezzarsi la schiena mentre Luca se ne stava comodo come un signore? Il fratello minore non poteva farsi carico di qualcosa? I genitori aspettavano i nostri arrivi da mesi per sistemare la stalla o imbiancare le pareti, anche se molto avrebbe potuto farlo lo stesso Giuseppe. Ma Rosanna proteggeva Luca come un tesoro, senza lasciargli nemmeno toccare una scopa.
Con mio sollievo, Enrico ci pensò su. Per la prima volta, vide quanto fosse ingiusto essere sfruttato, e convenne: bastava fare il salvatore di tutti. Decidemmo di non cedere più alle pressioni. Per il ponte del Primo Maggio, nonostante le chiamate della suocera, restammo a casa. E anche per le altre feste non andammo. Poi, quando finalmente ci fu l’occasione per una vera vacanza – mare, sole e libertà – lo comunicammo alla famiglia. Rosanna esplose come un vulcano. Urlò che avevamo tradito la famiglia, che avevano bisogno del nostro aiuto. Enrico, gelido, chiese: *”Quale aiuto?”* Ebbene, volevano rifare la veranda – e ovviamente, contavano su di noi.
A quel punto, mio marito perse le staffe. Le urlò in faccia: *”Hai un altro figlio, mamma. Non è ora che si dia una mossa?”* La suocera iniziò a balbettare, dicendo che Luca doveva studiare, che non poteva distrarsi. Ma Enrico le ricordò che lui, quando era studente, lavorava come un matto per tutta la famiglia perché *”il fratello era piccolo”*. E adesso? Ora Luca era grande, ma intoccabile lo stesso. *”Mamma, hai due figli,”* disse, con una voce che spezzava il cuore. *”Ma a volte sembra che uno sia tuo, e io un estraneo.”* E riattaccò.
Non passò un minuto che Rosanna mi chiamò. La sua voce tremava di rabbia e lacrime. Mi accusò di aver avvelenato la mente di suo figlio, di aver distrutto la famiglia, di averglielo rubato. Io, senza dire una parola, riattaccai e bloccai il suo numero. E sai una cosa? Non me ne pento neanche un po’.
Se Enrico fosse stato figlio unico, sarei stata la prima a fare squadra con i suoceri. Ma quando in una famiglia ci sono due figli, e uno vive come un principe e l’altro come uno schiavo, è ingiusto. Non voglio che mio marito si senta un escluso nella sua stessa famiglia. E se per questo devo tagliare i ponti con la suocera, lo faccio senza rimpianti. La nostra vita è nostra, e finalmente abbiamo scelto noi stessi.