«Chi è davvero tua madre: la svicolatrice o quella che chiami “mamma”?»

**Diario di Marco**

Ogni volta che sento qualcuno chiamare la suocera “mamma”, mi vengono i brividi. Non perché sono cattivo o invidioso. Ma perché per me quella parola è sacra. Non la si regala a destra e a manca. La mamma non è semplicemente una donna legata a te da un timbro sul matrimonio. La mamma è colei che ti ha cresciuto, che ha passato notti insonni, che ha pianto di impotenza ma si è alzata ogni mattina per lottare ancora per te.

Ho un’amica del cuore, Beatrice. Siamo amici dall’infanzia, è stata testimone al mio matrimonio e io a tutti e tre i suoi. Abbiamo condiviso tanto, e nonostante la vita, i figli, i traslochi, ci teniamo stretti l’uno all’altro. Le dico spesso scherzando:

“Allora, Bea, aspettiamo che i ragazzi finiscano l’università e poi andiamo in pensione a ballare in discoteca?”

L’altro giorno sono andato da lei per una commissione—le ho portato delle medicine dalla farmacia perché non poteva uscire: la macchina era dal meccanico. Le porgo la busta e lei annuisce:

“Non è per me. È che la mamma non sta bene.”

Sorrido, entro in cucina e quasi senza pensare esclamo:

“Buongiorno, zia Grazia! Come sta?”

Solo quando la donna si gira, capisco: non è sua madre. È la madre del suo terzo marito. La suocera. E Beatrice la chiama affettuosamente “mamma”, come ha fatto con tutte le altre.

Ricordo come andò con la prima e la seconda. Con Luca, il primo marito, fin dal primo giorno chiamava sua madre “mamma”.

“Ma sei pazza?” le sussurrai allora all’orecchio. “Non la conosci! Non è tua madre!”

Lei sorrise soltanto:

“È strategia. Le farà piacere. Mi accetterà. E Luca sarà felice. Tutto qui.”

Peccato che poi quella “mamma” le sputasse addosso. Quando Luca tornava ubriaco, dormiva chissà dove e Beatrice la chiamava, lei sospirava soltanto:

“Che vuoi, piccola? Un uomo stanco ha bisogno di svagarsi…”

Passarono due anni—divorzio. Ebbero un figlio, ma nessuna delle “mamme” mostrò interesse né per il nipote né per lei.

Con il secondo fu diverso. Quella suocera subito si mise sulla difensiva:

“Questo ragazzino non fa per te. Portalo dove vuoi, anche in orfanotrofio. Non abbiamo soldi per lui.”

Eppure Beatrice continuava a chiamarla “mama”. Fino a quando non capì che dietro quel “mama” c’era solo fredda crudeltà. Divorziarono, per fortuna senza figli.

Ora è al terzo matrimonio, e la storia si ripete. Le stesse parole dolci, la stessa ingenua speranza che dire “mamma” sciolga il cuore di quella donna e la renda davvero famiglia.

Ma no. Non funziona così.

Io so di cosa parlo. Anche io ho una suocera. E tra noi… non ci limitiamo a sopportarci. Ci rispettiamo davvero. Possiamo parlare di tutto, ridere insieme, raccogliere le ciliegie o commentare una serie tv. Ma ci chiamiamo per nome. E questo non ci impedisce di essere più vicini che molti parenti di sangue.

Perché “mamma” non è un titolo da usare per convenienza. È una medaglia. Va guadagnata. Non si compra, non si ottiene con un dolce o un sorriso. La vera mamma non è quella che arriva nella tua vita con un marito. È quella che arriva—per restare.

E sì, a volte una suocera diventa più cara di una madre. Succede. Ma è raro. Un’eccezione, non la regola.

Perciò quando sento:

“Mamma, vuoi un po’ di tè?”
“Mammina, come ti senti oggi?”

Mi chiedo sempre la stessa cosa: è amore? O solo l’abitudine di fingere?

**Lezione di oggi:** Le parole hanno un peso. Se le svuoti del loro vero significato, anche i legami diventano vuoti.

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